Carro istriano, ultimi scorci
Un'eredità dei Romani ripresa
dalla Serenissima
[Tratto da:
© Panorama, 30 aprile
2005 (Rijeka).]
Il rovignese Libero Benussi è
autore del singolare saggio tecnico-dialettale
Carro istriano, ultimi scorci
di Eleonora Brezovecki
"Ho iniziato la mia ricerca
sul carro istriano, stimolato da motivi di carattere prettamente
linguistico. Dialogando con Pietro Budicin - Murlena, un mio zio
contadino che in famiglia abbiamo sempre chiamato Pierin, a un certo
punto mi sono accorto che usava dei termini dialettali a me sconosciuti,
che non erano stati catalogati neanche nel compendio del Vocabolario
del dialetto di Rovigno d'Istria, di Antonio e Giovanni Pellizzer.
Le foto con cui ho corredato la ricostruzione, invece, le avevo scattate
in precedenza, spinto da motivi esclusivamente sentimentali quando, alla
morte di mio suocero, mi ero trovato a disporre di un carro di contadini
del quale dovevamo decidere il destino. Volevamo conservarne almeno il
ricordo, per cui l'ho fotografato in tutti i suoi particolari".
Il prof. Libero Benussi
esordisce così quando lo invitiamo a parlare del suo saggio scientifico
"El caro - Il carro: struttura e costruttori. La terminologia nel
dialetto di Rovigno", che gli è valso anche il Premio Antonio Borme al
Concorso d'Arte e di Cultura Istria Nobilissima 2003.
* Quali le difficoltà
incontrate lungo il percorso di una ricerca tanto complessa e laboriosa?
"Come tutti i miei lavori di
ricerca pubblicati in passato, musica popolare, imbarcazioni, vele, nomi
dialettali delle piante e altri, anche questo è iniziato una quindicina
di anni fa, con la raccolta del materiale bibliografico e delle
testimonianze dei contadini più anziani - spiega Libero Benussi -.
Spesso si è trattato di una ricerca a ventaglio, cioé non indirizzata a
un tema specifico. Ad esempio, indagando sui nomi delle piante ho
scoperto alcuni vocaboli attinenti le parti del carro, come le peîpe,
fatte di corniolo, o la poû?a, di legno di
olmo. Una difficoltà incontrata nel corso della ricerca era dovuta al
fatto che, al fine di poter effettuare delle verifiche incrociate,
sarebbe stato necessario consultare più di uno degli agricoltori che nel
Rovignese usavano e conoscevano la terminologia attinente l'argomento.
Ma, come è facilmente comprensibile, si tratta di persone molto anziane,
come ormai se ne trovano poche.
Il punto di riferimento è
stato proprio lo zio Pietro Budicin, nato nel 1922 e scomparso nel 2003,
contadino e carraio, che ha saputo indicarmi con assoluta precisione la
terminologia e la funzione dei singoli elementi costruttivi di questo
mezzo di trasporto. Devo dire ancora che nel corso di tutto lavoro di
ricerca, ho avuto modo, nel contempo, ad ampliare la mia conoscenza
attiva del dialetto rovignese. E il fatto di conoscere attivamente il
nostro vernacolo, mi ha consentito di conversare più fluidamente con i
miei concittadini e venire a conoscenza di alcune particolarità e di
vocaboli specifici che vengono usati in un discorso più ampio. Io,
comunque, prendo nota di tutto e faccio anche degli schizzi, spesso in
loco".
* Nel corso della sua
ricerca, si è avvalso pure di nozioni acquisite precedentemente.
"Certamente. A parte le
cognizioni di carattere storico-generale sul carro, nel caso specifico
mi sono stati di grande aiuto i lavori dei proff. Giovanni Malusà,
Antonio Segariol, Antonio-Gian Giuricin, senza i quali non avrei potuto
avere una visione storica completa dell'evoluzione del carro e degli
artigiani che a Rovigno lo costruivano, cioé carrai e fabbrocarrai.
Probabilmente sono riuscito a prendere l'ultimo treno, perché oggi
portare avanti una ricerca del genere sarebbe pressoché impossibile per
la mancanza di interlocutori. Per completare il quadro plastico degli
elementi costruttivi del carro, mi sono state di grande utilità le
uniche due botteghe di carrai che si sono conservate fino ai giorni
nostri, quella di Giuseppe Bartoli, mantenuta integra dagli eredi, e
quella dei Sergovic, oggi proprietà del figlio Petar-Piero Sergovic,
classe 1920. Naturalmente, le botteghe in parola non sono più in
funzione, carri nuovi non si costruiscono da una ventina d'anni, però
rivestono un valore storico tutt'altro che trascurabile".
Carro istriano: origini,
tecniche di costruzione, mestieri artigianali, terminologia dialettale
nel saggio del rovignese Libero Benussi Un'eredità dei Romani ripresa
dalla Serenissima
Entrando nell'essenza del
saggio, apprendiamo che le prime notizie certe della presenza e della
funzione del carro, o el caro come viene definito nella parlata
dialettale, per quanto riguarda l'agro rovignese sono contenute in una
copiosa documentazione che regolamentava la problematica del
rifornimento di legname per l'Arsenale di Venezia, legname destinato
alla costruzione delle grandi imbarcazioni militari e di trasporto.
Anche se, essendo in Istria fortissima l'eredità etnoculturale e tecnica
lasciata dai Romani e continuata dalla Serenissima, non si può
certamente escludere che la provenienza del nostro carro sia legata
anche al "rhaeda romano", il cui tavolato poggiava direttamente sugli
assali. O meglio, si potrebbe dire che l'odierna versione del carro
nostrano sia un'intelligente intreccio di diverse tecniche di
costruzione, anche perché la storia ci insegna che le ruote a raggi,
inventate dai persiani, furono copiate dapprima dalla civiltà greca, poi
da quella degli Etruschi, dei Celti e dei Romani, e ognuno sicuramente
ne perfezionò la costruzione per ottenere prestazioni sempre migliori.
Dei carri esistenti al
periodo della Serenissima a Rovigno e in Istria ce ne fa cenno lo
storico rovignese Bernardo Benussi nella "Storia di Rovigno", come pure
il Facchini in "La grande carratada istriana", un'edizione del 1997. A
pag. 126 possiamo leggere che nel 1560 "i buoi per la Carratada della
città di Rovigno erano 136 e che i carezi erano nove e mezzo per bue".
Va ricordato che la
"Carratada" corrispondeva al traino dei carri con il carico di legname
trasportato per le necessità di Venezia dai boschi fino alla costa, ai
cosiddetti "caregadori", di cui Rovigno sul suo territorio ne aveva ben
cinque. Siccome il carro, come tutti gli oggetti in legno senza
protezione, era soggetto a un relativamente precoce deperimento,
soprattutto a causa dei tarli e del marciume, non sono giunti fino a noi
dei carri che avessero un'età secolare. Tuttalpiù, negli anni '80, si
potevano vedere ancora dei carri costruiti nei primi anni del '900. Ma
la maggior parte dei carri ancora efficienti erano di costruzione più
recente. È interessante rilevare che il tipo di carro realizzato dagli
ultimi carrai rovignesi era un veicolo piuttosto leggero e non troppo
ingombrante, in quanto doveva potersi muovere e manovrare nelle anguste
calli della città vecchia. E, talvolta, per farlo entrare nella stalla
si era addirittura costretti a rimuovere il timone e spostarlo a
braccia. Ancora negli anni '60, infatti, c'erano parecchie stalle in
cittavecchia, situate verso la parte alta di via Montalbano e nelle vie
Vladimir Svalba (ex Dietrocastello) e S. Tommaso, nelle quali i
contadini tenevano anche i loro animali e che poi, proprio in quel
periodo, per decreto motivato da ragioni igienico-sanitarie, vennero
trasferite in luoghi più confacenti, alla periferia della città.
Le differenze tra carro
agricolo e carro dei pescatori
La tecnica di costruzione e
la struttura del carro rovignese, come rileva il Benussi, grossomodo non
si discostavano da quella degli altri carri a quattro ruote che
ritroviamo un po' in tutta l'Istria sud-occidentale. Di particolare
interesse, però, sono i nomi in dialetto rovignese delle singole parti,
originali e talvolta unici, che formano un tutt'uno con il mondo
popolare che ha visto nascere, crescere e morire codesti mestieri.
Succede, pure, che alcuni degli elementi costruttivi del carro agricolo
non li troviamo nel carro usato dai pescatori.
Precisamente: l'attacco per
l'animale o animali da traino posizionato sul balansòn, traversa di
tiro, sul quale trova posto el balanseîn, bilancino, con i tiranti,
bretelle; il freno, slài o slàif, il cui nome tedesco forse sta ad
indicare il periodo in cui è stato perfezionato l'apparato frenante con
l'introduzione di una manovella a vite, maneîsa, che era collocata
lateralmente davanti nei carri comuni o posteriormente, nei carri più
grandi e da buoi. Ancora i stagiòni, i sostegni laterali, con annesse le
scale, le cosce o fiancate, come pure il lungo palo di orno o olmo detto
soûra, che collegava il carrello anteriore detto brasadoûra davanti a
quello posteriore, brasadoûra da dreîo. Alla soûra, a partire dalla sua
metà, veniva applicata la freccia del carro a forma di "V", detta
palìdaga se realizzata da un solo pezzo, o palidighe, se composta da due
pezzi, che, incastrati assieme alla soûra nella brasadoûra da dreîo, tra
la cameî?a e il cuseîn, proseguivano fino all'estremità posteriore del
carro. Le sporgenze divaricate delle palìdighe erano munite di anello
che serviva a fissare il carico, specie il fieno, mentre la soûra
sporgeva abbondantemente sul retro e serviva per lo spostamento a mano
del mezzo.
Nel carro dei pescatori
troviamo invece un solo pezzo a congiunzione tra le due brasadoûre,
ricavato da uno stortame a "V" di orno, varno, detto palìdaga, la
freccia, che in questo caso era di un pezzo unico. L'estremità biforcata
serviva a tenere in posizione corretta la parte anteriore, infilata,
come pure per la soûra, tra il cusinìto e cameî?a del carrello
anteriore. Quì era attraversata dal macaròn, lungo perno verticale, per
permettere la rotazione della parte anteriore nelle svolte. In questo
tipo di carro la palidàga non sporge molto oltre al cuseîn da dreîo, e
non è munita di anelli. Detto carro risulta di forma più allungata e più
stretta, era più basso, perché dotato di ruote più piccole, e munito
all'occorrenza di un largo tavolato o da un tavolato ridotto, ambedue
asportabili in quanto poggiavano sui lunghi travetti portanti
longitudinali. In generale tutte le parti lunghe e diritte di ambedue i
carri erano di orno oppure d'olmo.
El geîro, ovvero la parte
anteriore che permetteva le manovre di svolta, era funzionalmente
identica in ambedue i carri: l'assale, asàl, l'asse che sosteneva le
ruote, era fissato alla cameî?a che era a sua volta fissata con le gàfe
o bràghe di ferro al cusinìto o sièso. Il tutto racchiudeva li palàstre,
divaricazione in legno che sosteneva la lama del geîro, lama di ferro o
acciaio da 8 o 10 millimetri di spessore che, sistemata tra il cuseîn e
cusinìto, permetteva la rotazione con le ruote anteriori. Alle estremità
delle palàstre era fissata la poû?a, una traversa pure di legno che,
ruotando sotto alla soûra o sotto alla parte anteriore della palìdaga,
nell'altra versione, dava stabilità all'avantreno nelle manovre di
svolta. La rotazione avveniva attorno al macaròn o soirunseîn, che,
oltrepassando la parte anteriore della soûra o della palìdaga,
assicurava lo snodo necessario con la struttura fissa del carro.
Una evidente differenza
nella costruzione si poteva notare nella parte anteriore, dove era
innestato il timone.Li palàstre potevano congiungersi nella linguièla,
per un innesto divaricato del lungo timone, oppure essere disgiunte, le
cosiddette ganàse, per lasciare che il timone si infilasse tra loro a
baionetta. Il timone veniva fissato tramite un perno passante detto
spirunseîn del timòn o anche macaròn. In ambedue le tipologie di carro
c'era una traviersa da li scale, traversa della mezzaria, che, essendo
poggiata e fissata sulla congiunzione tra soûra e palìdaga, o alla sola
parte centrale della palìdaga, irrigidiva tutta la parte posteriore del
carro. Il carro agricolo si differenziava da quello dei pescatori anche
per il tavolato, le spondine, le quattro aste infilate alle estremità
dei cuseini e altre diversità in funzione dell'uso che se ne doveva
fare.
Giuseppe Bartoli uno
degli ultimi carrai
Come campione per questi due
tipi di carri, il Benussi ha usato, sembra, il carro negli anni '50
costruito per suo suocero Giacomo Garbin dal carraio Giuseppe Bartoli e
quello di proprietà della famiglia di Sergio Preden-Gato, che risale
alla prima metà del '900 e che fu realizzato da un carraio ignoto, con
una tecnica diversa da quella del Bartoli. Di questo carraio ricorderemo
in particolare pure il metodo di costruzione della ruota, che a Rovigno
veniva fatta a raggi o razze disposti a stella, con dieci razze nelle
anteriori e dodici (talvolta anche dieci) nelle posteriori, mai ad otto
montate a croce come avveniva in altre parti dell'Istria. I pezzi delle
ruote del Bartoli, poi, come è stato spiegato da suo nipote Sergio
Sponza, venivano sottoposti ad un particolare trattamento. I ràgi, el
mùiol e li cuvièrte, suo nonno li bolliva nell'acqua in un grande
recipiente detto caldèr, per dar loro massima durezza e durata.
A Rovigno le botteghe dei
carrai si trovavano sempre nelle immediate vicinanze delle officine dei
fabbri, onde evitare spostamenti per i lavori delle finiture in ferro,
che per la ruota, ad esempio, era il cerchio di ferro che manteneva la
rigidità della struttura in legno e altre borchie e simili, come pure le
quattro vire, la buccola, buòcula, anello di ferro di cui si riveste
l'interiore del mozzo delle ruote, nel quale viene alloggiata
l'estremità dell'assale, aseîl, nel quale la ruota poteva girare
liberamente dopo esser stata ingrassata a dovere.
Altre dettagliate
definizioni contenute nel lavoro di ricerca del Benussi, che riguardano
la struttura, il funzionamento e la terminologia dialettale, sono el
lài, il freno, la forza motrice, gli animali da traino usati per il
carro agricolo, mentre quelli usati dei pescatori venivano invece spinti
a braccia o, talvolta, tirati con l'uso di una corda che fungeva da
tirante. Gli animali da tiro, in questi casi, erano l'asino, il mulo o
il cavallo, il bue, e venivano dotati di un collare imbottito, el
cumàto, al quale erano fissati i due tirànti, a loro volta attaccati al
balanseîn, il bilancino. Al bue, però, invece del cumàto, veniva
applicato il ?iògo, giogo. Nei casi in cui si usavano due buoi il giogo
era doppio.
Cavalli, muli e asini
venivano guidati tramite li ?brene o li rìdane, le redini, e venivano
incitati con la parola èrisa! Il bue invece, oltre al medesimo
incitamento d'avvio, veniva guidato dalle parole stì e sà, per farlo
svoltare rispettivamente a destra o a sinistra, incitamenti ai quali
faceva seguito il nome dell'animale, terminologia che era in uso pure
per gli altri animali da traino. L'assetto del carro, poi, variava
dipendentemente dall'uso al quale era destinato, cioé se si trattava del
trasporto di letame, fieno, legna o altro.
Il Saggio di Libero Benussi
contiene anche un elenco aggiornato ai nuovi lemmi dialettali e a quelli
il cui significato o uso è stato riveduto sulla base di quanto emerso
durante l'opera di ricerca, nonché una bibliografia sul tema, contenuta
nel volume "Terminologia agricola dell'istro-romanzo a Rovigno, Valle e
Dignano", di Giovanni Malusà, "Vocabolario del dialetto di Rovigno
d'Istria", di Antonio e Giovanni Pellizzer, "Mondo popolare in Istria",
di Roberto Starec, tutte e tre pubblicazioni del Centro di Ricerche
Storiche di Rovigno, e "Strumenti tradizionali dell'agricoltura nelle
campagne dell'Istria", di P. Delbello, edizione Italo Svevo di Trieste,
che trattano le diverse modalità di costruzione che venivano applicate
nel Buiese e nel Pinguentino.
Una fiorente attività
artigianale nel passato di Rovigno
Libero Benussi ha voluto
ricordare che, oltre ai documenti scritti e a quanto ha potuto
apprendere sull'argomento direttamente da Pietro Budicin-Murlena, un
grande aiuto gli è stato fornito dal falegname Bruno Brunelli, dal
fabbro ferraio Umberto Malusà e dal bottaio Petar-Piero Sergovic. Una
dettagliata panoramica sui contenuti delle attività economiche della
città di Rovigno tra il 1928 e il 1945, gli sono state invece fornite
dal saggio di Antonio Gian Giuricin "Le mieîe cuntrade" (1988).
Benussi ha voluto ricordare,
ancora, come Rovigno in passato abbia avuto una fiorente attività
artigianale e lo dimostrano le 18 officine di falegnami, le otto di
bottai, le sei di fabbri ferrai e altrettante di fabbromaniscalchi che
erano in funzione nella prima metà del secolo scorso. Negli anni '60,
invece, erano rimaste solamente le botteghe di artigiani costruttori,
come quella del carraio Giuseppe Bartoli, nonché le officine dei
fabbroferrai e maniscalchi Antonio Dessanti e Mario Saina. Nella bottega
di bottaio dei Sergovic e in altre di falegnameria, ad esempio quella
gestita da Domenico Barzellato, "el Vigile", si costruivano pure dei
carri, sia quelli usati dai contadini sia quelli di cui si servivano i
pescatori.