Acent'anni
dalla nascita (Pisino, d'Istria, 3.2. 1904) il 2004 avrebbe dovuto
essere, in Italia e nel mondo, l'anno celebrativo di Luigi Dallapiccola.
Una personalità unica nella musica del Novecento, non solo di creatore e
d'interprete, ma anche d'impegno civile e umano non certo riscontrabile
fra i suoi colleghi contemporanei né fra quelli che (almeno in Italia)
improntarono di sé oltre sessant'anni della cosiddetta "Avanguardia".
Cent’anni dopo
Conclusosi l'anno celebrativo, pare opportuno tirare le
somme di come sono andate le cose nel Belpaese in questa circostanza. È
ben più di un'ipotesi che - per il Ministero dei Beni Culturali italiano
- questo sia stato un centenario imbarazzante. Il Comune di Firenze
(città "adottata" dal Maestro) aveva richiesto al detto Ministero
l'istituzione di un organismo per le celebrazioni nazionali di questo
centenario, da realizzarsi "ope legis" e con apposita copertura
finanziaria sì da garantirne la proiezione nazionale ed internazionale.
Come risposta ottenne un bel "No".
Non restava, quindi, che la volonterosa formula del "fai
da te", già molte volte sperimentata per Dallapiccola in occasione di
ricorrenze meno "tonde" (ventennale dalla morte ecc.) che, se da una
parte testimonia di un interesse diffuso per il nostro compositore da
parte della migliore musicologia italiana non "targata" da integralismi
ideologici, dall'altra rappresenta anche un limite territoriale
occasionale tale da non consentire il raggiungimento dell'unica meta
importante: far entrare finalmente la musica di Dallapiccola nei
repertori lirico-sinfonici che danno spazio (nella già scarsa presenza
della musica contemporanea) unicamente ad improbabili raschiature di
botte ormai giunta all'ultima feccia recuperabile sulle doghe del fondo.
Un destino che perseguitò Dallapiccola da vivo e anche dopo morto. E ciò
proprio a causa della sua visione umanistica, tetragona ad ogni comoda
acquiescenza "settaria" che spesso lo faceva esclamare:
"Guai a chi non volesse essere sincero, anche quando l'essere falso
costituirebbe per lui la salvezza."
Tornando al "fai da te" fiorentino, Firenze, con i suoi
soli mezzi (comunali e regionali) ha saputo allestire un cantiere di
tutto rispetto: Convegno a Palazzo Vecchio, Mostra a Palazzo Pitti,
Mostra a Fiesole, cinque titoli con l'Orchestra regionale toscana, tre
programmi agli Amici della Musica, l'opera pianistica e cameristica al
Conservatorio, "Prigioniero" e "Volo di notte" al Maggio. Sul fronte
editoriale, "L'epos" di Palermo ha sfornato uno splendido volume
dedicato al Nostro dal prematuramente scomparso Sergio Sablich e
l'editore milanese Suvini Zerboni ha consegnato un documentatissimo
"Catalogo ragionato" della produzione dallapiccoliana, steso con zelo da
Mario Ruffini. Opere, si sa, non certo rivolte a folle oceaniche di
lettori, ma che hanno il pregio di "restare".
Qualche spazio a Dallapiccola è stato assicurato dagli
Istituti Italiani di Cultura all'estero, mentre solo poche Fondazioni
Liriche lo hanno programmato. Trieste (Teatro Verdi) se ne è
assolutamente dimenticata, lasciando all'Università Popolare e al
Seminario Internazionale "Emozioni e Mathesis" l'onore di occuparsene,
in due serate. Pisino e Cittanova lo hanno inserito nell'annuale
Convegno sul "Patrimonio musicale Istriano", fortemente sbilanciato
verso i compositori croati. In precedenza (1997, ventennale della morte)
il Centro studi Busoni di Empoli aveva organizzato un Convegno a più
voci su Dallapiccola (poi dato alle stampe). Ciò a testimoniare che
tutti questi fermenti, se organizzati in senso unitario, avrebbero avuto
portata assai più coinvolgente e produttiva allo scopo.
Perché Firenze?
Fra i tanti (troppi) elementi che sono stati sorvolati,
nella pur vasta ed intelligente attuale "rilettura" di Dallapiccola uomo
e musicista, figura "ab ovo", la sua decisione (1922) di trasferirsi
stabilmente a Firenze. Una scelta che, conoscendo Dallapiccola, non
poteva che essere profondamente meditata, al punto da poter fornire una
chiave importante per la sua "poetica" tesa a fissare, attraverso la
memoria storica, un'ineludibile continuità col "presente" del dramma
umano soggetto a fatali "corsi e ricorsi" e con ciò elevandolo dal
"cronachistico" al valore assoluto dell'apologo "senza tempo".
Il suo interesse di conoscere di persona Ildebrando
Pizzetti e di confrontarsi con lo stroncatore dell'"Harmonielehre" di
Scönberg (1911, trattato di Armonia e non di "dodecafonia") appare solo
un dettaglio di cronaca, assolutamente non determinante per questo
trasferimento fiorentino. Tantopiù considerato l'impatto negativo che
ricevette da quella città, allora visceralmente ostile al "nuovo" nella
musica e nella cultura e priva di fermenti vitali. Vi conobbe solo
ostilità e l'amarezza dello scherno non certo atte a consigliarlo a
tratte-nervisi. Se invece vi elesse dimora stabile, ben altre ne furono
le motivazioni, dato anche che, in seguito, doveva dichiarare che anche
la sua formazione musicale in quel Conservatorio "non influì
minimamente"
sulla sua estetica musicale. Nei salotti fiorentini gli si accreditava
lo "charme dell'antipatia", una definizione che lo relegava al ruolo di
affascinante guastafeste, utile però ad introdurre in tali ambienti
"codini" un po' di pepe di contestazione.
Perché, dunque la riconfermata scelta di Firenze? Perché
la sua impareggiabile storicità artistica che, ad ogni angolo, gli
permetteva d'incontrare miti perenni, ben s'accordava col messaggio
della sua arte che intendeva annullare il tempo in un eterno presente,
annullando ogni contaminazione d'attualità cronachistica, come tale,
condannata alla caducità di tutte le mode e di tutte le passionalità
contingenti. Tale "consonanza" gli risultava ben più importante e tale
da fargli sopportare ostilità, amarezze e scherno che non gli furono
risparmiati nel corso di tutta la sua vita e anche dopo. Donde questa
sua angosciosa, persistente domanda: Quando la
borghesia comprenderà che l'artista ha problemi ben più gravi da
risolvere che non quello di allietare la serata di poche persone
convenute in una sala da concerto?
Se non si pone mente a ciò, sarà meno facile amare e
comprendere le creazioni sonore di Luigi Dallapiccola.
L'istinto seriale
Luogo comune improvvido quanto pervicacemente
stratificato nella musicologia italica appare l'attribuzione a
Dallapiccola d'essersi inventato una "via italiana della dodecafonia".
Precisi riferimenti storici smentiscono questa affrettata qualifica di
comodo che implicitamente presupporrebbe degli "adattamenti" apportati
alla lezione schönberghiana posteriormente alla conoscenza preliminare
della stessa. È ben noto invece che Dallapiccola poté documentarsi sulle
regole del sistema di Schönberg molto tardi, anche se in esse trovò
assonante ma mai ortodosso consiglio.
Piuttosto andrebbe messa in luce l'origine prima della
musica dallapiccoliana: il canto vocale, al quale è dedicata la parte
predominante della sua produzione, anche nelle strutture esclusivamente
strumentali. E il "canto" presuppone la ripetitività di un ristretto
numero di suoni che ne costituiscono il materiale primigenio. In realtà
una "serie" (non necessariamente di 12 suoni), ma sempre una "serie". E
sappiamo bene che anche pochi suoni, se sottoposti agli artifizio del
"Contrappunto severo" possono trasformarsi in maestose cattedrali: G. S.
Bach docet. In Dallapiccola - ben prima del tardo incontro con la
dodecafonia - era vivo l'istinto della serialità e dell'architettura
matematicamente "perfetta", unica garante della struttura unitaria d'un
rano musicale (breve o lungo che sia). Come era viva l'esigenza di
"sondare" tutte le possibilità del "materiale" di base propostosi.
Questa "grammatica" dallapiccoliana, ben prima della conoscenza del
metodo di Schönberg, costituì il suo originale apporto al rinnovamento
musicale che, più tardi trovò conforto nelle teorie di Schönberg a lui
congeniali ma mai dogmaticamente accettate, in base al suo principio
irrinunciabile alla Libertà (creativa e di pensiero). Altro che "via
italiana" della dodecafonia!