Pasqua istriana

[Tratto da: Guido Miglia, Le nostre radici. Edizioni Comunità istriane, 1969. (Excerpt)]

La primavera è esplosa improvvisa nella mia terra, come ogni anno. Cammino talvolta lungo i sentieri selvaggi del Carso, e lontano brilla il mare: la mente corre oltre Capodistria, oltre Parenzo e Rovigno, e va fino a Pola, la mia cara città lontana, che m'illudo di vedere dovunque, oltre la linea di tutti gli orizzonti. Allora decido di andare oltre il confine, di spezzare questo tragico diaframma che mi divide dal mondo che ancora sento mio. E corro, con un'ansia che si accentua ogni volta, fra le campagne e le strade assolate, mi guardo all'intorno, le case bianche e grige, i campi solitari e un po' tristi, gli uomini chini sull'aratro, le donne che guardano passare veloci le macchine, e che vi seguono con occhi curiosi, attenti, quasi a dirvi che sono dello stesso sangue vostro, e fra l'erba verde smeraldo le greggi immobili, macchie bianche che si muovono lente, gli agnellini soffici e dolci, che si fermano accanto alle madri.

Dopo Valle vedo le casite a forma di trulli, disseminate ai margini dei campi, accanto alle masiere, nascoste fra il verde dell'erba e il ruggine dei quercioli, e già mi pare di essere a casa'mia. Accelero finché arrivo a Dignano, corro per rivedere ancora una volta l'umile casa delle “Noze istriane” di Smareglia, e già a destra s'illumina superba Brioni, mi fermo su un colle, a contemplare quel mio paesaggio di mare, di cielo, di terra, e vorrei averlo tutto vicino, accarezzarlo tutto insieme, l’Adriatico lucente che lambisce Brioni e Fasana, che s’insinua dolcemente nella mia città: li’, nel fondo, c’è Pola, le case sui sette colli, l’arena nel mezzo, bianca, immensa, che si specchia nel mare. La lunga riva, il palazzo absburgico del ammiragliato, lo Scoglio Ulivi col grande cantiere, lo Scoglio Franz in cui ancora distinguete la fondamenta di ville romane, la curva bianca della costa, fino alla diga, e ancora Brioni.

Ma io vado oltre l'arena, a rivedere come sempre la mia casa, il mio prato, ora deturpato da un brutto edificio grande, e a duecento metri contemplo la pineta dei miei giochi infantili, e oltre i pini vado a guardare il bosco Siana.

Il mio prato non c'è più, era già sparito negli ultimi anni dell'Italia, e ricordo ancora i rumori delle macchino che costruivano la grande casa popolare che ora lo occupa tutto. II prato delle nostre corse a piedi e in bicicletta, del lancio dei nostri aquiloni, dei fuochi di San Giovanni, il prato delle nostre evasioni, immerso nei profumi dei boschi vicini, che ogni volta, nell'ora del crepuscolo, mi davano un leggero stordimento.

Era anche il prato della Pasqua, dove arrivavano i pastori istriani per vendere alle nostre mamme gli agnellini della festa. Andavo fuori di casa con mia madre, la tenevo per mano e sentivo il caldo della sua palma morbida: rivedo il suo volto amato, felice in quei giorni tanto lontani e diversi, risento la sua voce armoniosa, suadente, il suo contrattare il modesto prezzo dell'agnellino, e poi orgogliosa portarlo a casa, e tenerlo legato nel nostro cortile, fino alla vigilia di Pasqua, quando la casa era inondata dal profumo delle pinze, avvolte nella coperta di lana, su una bella tavola posta sopra la cassapanca della camera da letto.

II mio prato che oggi non ritrovo, che mai più ritornerà, e che un grande scritore nostro, Giani Stuparich, ha rievocato in una pagina di vita istriana, con quella gentilezza e finezza di sentimento che vibra in ogni sua riga.

Leggiamola insieme:

II mio primo ricordo della terra istriana è Pola. Ho poco più di quattro anni e mi trovo in casa della vecchia zia Marietta, ed è tempo di Pasqua. Un grande avvenimento si prepara: "Domani andremo insieme a scegliere l'agnello" ha promesso zia Marietta.

La mia tenera mano nella mano rugosa della zia cammino per le vie di Pola. Non vedo nient'altro se non quel che mi crea la mia immaginosa aspettativa. Ed ecco, usciti dall'abitato verso la campagna, la mia aspettativa s'avvera nella realtà: sul sentiero erboso incontriamo i primi bambini con gli agnelli belanti in collo. La visione mi fa solidale con loro in un regno favoloso. Il campo a cui arriviamo brulica di agnelli e di bambini, le voci di questi fan musica coi belati di quelli, lane ricciute si mescolano a capelli ricciuti. Io confondo musi e facce: un solo gregge. I grandi ci sono, ma non contano. Non conta la zia Marietta. Con pronta e caparbia sicurezza ho scelto il mio agnellino e nessuno mi smuoverebbe dalla scelta. La zia ride, palpa l'animale, dice parole che non capisco; io so soltanto che non mi contrasta. L'uomo barbuto, nelle cui mani ella ha messo il prezzo dell'acquisto, solleva l'agnellino e me lo assesta sul collo. Stringo forte e trepido le sue zampine nelle mie mani. Da questo momento mi sento come sollevato sopra la terra.

Il calore vivo, l'odore penetrante, il belato dell'agnello: non c'è altro mondo per me. L'arena, le porte auree, e i templi romani, l'arsenale, i marinai per le strade, il porto, le navi da guerra, tutta Pola è sommersa dall'onda emotiva che fiotta dalla vita dell’agnello che tengo sulle spalle. La ritrovero’ piu’ tardi, e per molti anni, sempre ancora sullo sfondo di quel dramma pasquale.

Fu anche il primo, profondo dolore della mia vita - conclude Giani Stuparich. - Quando mi sottrassero l’agnelino a tradimento e poco dopo lo vidi appeso a testa all’ingiù, squarciato e spellato, urlai. Dei miei interminabili singhiozzi esalò uno spesso velo di tristezza, che la festosità della Pasqua non valse a diradare. Ancor oggi, dopo tanti e tanti anni, ritrovo nel fondo del mio animo quel velo, come presagio d'indicibile strazio.

Se Giani Stuparich fosse ancora fra noi, io gli direi che quello strazio indicibile si rinnova ogni anno, quando viene la Pasqua. Andrò in questi giorni nella mia città, passerò per quel prato delle memorie, e mi fermerò a lungo nel bosco di Siana, dove tutti ci si ritrovava nel giorno festivo. Ricordo le scarpe nuove, di lacca, strette a tal punto che il piede era indolenzito, le calze bianche con il risvolto ricamato, giallo e rosso, la lunga camminata fra i sentieri dì terra, l'odore delle prime viole che spuntavano tra l'edera ai piedi delle grandi querce, la coperta che la mamma distendeva sul prato pieno di sole, dietro la chiesa della Madonna di Siana, santuario di Pola, le borse gonfie di pinze, di uova sode, rosse, di titole, di agnello fritto, il dolce ritrovarsi con tutti i parenti, i complimenti per i buoni cibi della nostra Pasqua, le corse sfrenate fra le bancarelle della fiera cittadinesca, le pistole ad acqua, le palle di carta colorata con il lungo elastico, i fischietti a forma di canarini gialli (e sento ancora il loro odore di carta gommata), i merli che correvano fin sotto i tavoli della fiera pasquale.

E ricordo anche mio padre, che insieme ai suoi amici e ai nostri parenti si fermava all’ombra degli alberi accanto alla chiesa, e beveva la malvazia di Parenzo da bicchieri che brillavano nel nostro sole. Alla sera, tutti tornavamo a casa, a piedi e in carrozza, i cavalli leggeri che trottavano battendo gli zoccoli sui sentieri bianchi di polvere, qualche scoiattolo attraversava la strada e andava a nascondersi tra le fronde più folte.

Oggi è rimasto soltanto il ricordo, che strazia e che consola.


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Created: Monday, March 29, 2005; Last updated: Sunday, November 20, 2022
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