1939 - La bora nel porto di Lussingrande
 (Fotografata da Corrado Ballarin che abita a Trieste)

Lussingrande e la Bora

di Italo Cunei

Caro [Mario] Majarich.

Ho letto con molto piacere il numero 12 del tuo giornaletto dedicato alla bora, dove con mia gran soddisfazione, tu hai inserito anche la fotografia di Lussingrande con la bora, precisando che io te l'avevo mandata.

Tutto vero: desidererei soltanto aggiungere che io ebbi quella fotografia da Corrado Ballarin di Trieste. Ti scrivo ciò non tanto per fare una dovuta precisazione, quanto per dire, a chi non lo sapesse, che quest'anziano ed attivo signore di Trieste è un appassionato fotografo. Secondo quanto mi risulta, egli dovrebbe avere un enorme archivio di fotografie di Lussingrande e anche d'altri paesi dell'Istria. Presumo che sia così perché, in occasione della festa di Sant'Antonio Abate a Trieste in gennaio, egli presenta regolarmente una straordinaria serie di diapositive recenti e passate di Lussingrande e, poi, la Voce Giuliana pubblica periodicamente sue fotografie di numerosi paesetti dell'Istria, anche poco noti. Evidentemente egli visita tutti questi paesi con l'occhio d'appassionato fotografo, riprendendo poi con la sua macchina i più caratteristici edifici e monumenti che si presentano alla sua considerevole vena fotografica.

Delle rassegne triestine di Corrado Ballarin mi è rimasta impressa soltanto qualche fotografia fra le tante (e mi scuserà Corrado), ma ti assicuro che tutte sono molto interessanti sia dal lato artistico (ad esempio: un'enorme pianta di corbezzolo-magugna carica di frutti di colore che va dal verde, al giallo e al rosso, quasi un albero di Natale fuori stagione), sia dal lato storico (come una pietra con antica iscrizione inserita in un muro di cinta di una casa), e sia anche dal lato panoramico con bellissime vedute, anche aeree, di Lussingrande. A chi potrebbe interessare mi sarebbe facile fornire il suo indirizzo.

A Corrado mi rivolsi alcuni anni fa per avere qualche fotografia di Lussingrande per farne dei quadretti da appendere a casa mia. Egli mi diede una classica veduta del porto di Lussingrande (dimensioni cm 46 x 30), purtroppo rovinata dal torrione recentemente restaurato con quello che, così da lontano, sembra un grande anello bianco di calcestruzzo all'altezza della merlatura. Confesso che non conosco i motivi di quella scelta di restauro, che saranno stati probabilmente d'ordine tecnico, economico, pratico o altro. Ma certamente applicare cemento (o anche una semplice copertura così appariscente di malte bianche) su antiche pietre medioevali è un pugno nell'occhio ed un vero sacrilegio! Chissà cosa direbbero in questo caso i nostri antichi concittadini che costruirono il castello a difesa dei pirati slavi Uscocchi, a quei tempi aspramente combattuti per mare dalla Repubblica di Venezia. A me che trascorsi i primissimi anni dell'infanzia letteralmente all'ombra del torrione (da Gherbaz, dove abitavamo, il nostro orto dava proprio sul torrione che si trovava dall'altro lato della strada) e che ricordo perfettamente, a tanti anni di distanza, com'esso si presentava nel suo puro stato originale, viene quasi la pelle d'oca quando osservo quel particolare della fotografia. E sono proprio queste cose che mi trattengono quando penso di ritornare a Lussingrande, pur avendolo quasi alle porte di casa rispetto a voi che siete nell'altra parte del mondo, e che mi consigliano di conservare i miei ricordi intatti così come li ho fissati più di cinquant'anni fa.

Pensando a qualcosa di simile, come esempio sicuramente da non imitare e tanto per restare a Venezia, ricordo un fatto avvenuto una quarantina d'anni fa proprio in codesta che considero la mia città d'adozione (non per niente Venezia dominò per ottocento anni le nostre isole). Ti prego, a questo punto, di perdonarmi l'accostamento fra i due luoghi che sembrerà sbilanciato ma, forse per questo, l'esempio sarà più efficace restando inalterato il succo del discorso. A quel tempo fu costruito in pieno centro di Venezia l'hotel Bauer di stile moderno accanto alla chiesa barocca di San Moisè ed in mezzo agli antichi palazzi dal profumo d'Oriente della Serenissima. Successe un finimondo, anche internazionale, e diedero al sindaco di allora dell'incompetente, del matto e del corrotto.

Da Corrado ricevetti inoltre una bellissima veduta panoramica dal monte di San Giovanni, con un enorme pino in primo piano che tuttavia non nasconde né il paese, né i porti di Lussingrande e di Rovensca.

Con le fotografie feci, dunque, due quadretti che appesi nel soggiorno (o tinello come di una volta si diceva), naturalmente con il benestare di mia moglie. Poi Corrado mi diede anche la fotografia con la bora che montai nell'entrata del nostro appartamento, ben in vista fin dall'inizio a chi viene a trovarmi. Purtroppo questa fotografia in bianco e nero non piacque molto a mia moglie: lei, una grandissima donna, è di queste terre venete e quindi non sente quella nostalgia per Lussingrande che invece, per quanto mi riguarda, da sempre m'accompagna. Perciò andò a finire che il quadretto venne tenermi compagnia nel mio studiolo. Qui forse, assieme alla fotocopia di un diploma del 1889 di mio nonno Josef Kuney, ex guardia di finanza dell'impero austro-ungarico, mi godo maggiormente entrambe le immagini perché me le trovo davanti l'occhio ogni qualvolta sollevo lo sguardo dalla tastiera del computer oppure dalla pagina che sto leggendo.

Ebbi anche l'occasione di cedere la fotografia di Lussingrande con la bora alla Biblioteca comunale di Salzano, paese dove abito da cinque anni e che si trova a pochi chilometri da Venezia. Debbo ora fare una breve parentesi per precisare che questo paese non è in alcun modo in relazione con il signor Salzano della nostra infanzia, lo sposo felice della signora Beatrice che aveva la bottega di stoffe e bottoni sulla salita che porta alla chiesa della Madonna a Lussingrande. Ebbene, la biblioteca di Salzano subito utilizzò la fotografia (ed io immediatamente la imitai) come sfondo per uno dei suoi computers dell'ufficio: quasi un ideale gemellaggio, questo, fra Lussingrande in provincia di Pola (del 1939) e l'attuale paese di Salzano in provincia di Venezia. E qui mia figlia Silvia – la primogenita- affermerebbe che lavoro troppo con la fantasia, ma non per farmi un complimento. Ed io allora le ribatto che Cristoforo Colombo riuscì a scoprire l'America proprio grazie alla sua fantasia.

Pur essendo comunale la biblioteca di Salzano è gestita, assieme ad altre biblioteche della provincia di Treviso, da una ditta privata specializzata del settore, il cui titolare ha da poco ricevuto l'incarico di riordinare l'archivio comunale di Zara. Ma qui è necessaria un'altra parentesi.

Nel 1945 l'archivio comunale di Zara, nella sua parte che riguardava il periodo italiano che va dal 1918 al 1945, prima dell'invasione titina fu portato in salvo a Venezia a cura dell'amministrazione comunale italiana di allora, e chi sa con quante difficoltà e magari a discapito dei propri beni personali. Poi, con il trattato di Osimo (1975), il governo italiano, fra le tante altre cose che concesse con prodiga larghezza (a spese nostre: leggi beni abbandonati) alla Jugoslavia, s'impegnò di riconsegnare l'archivio italiano al comune jugoslavo di Zara. Così le casse dell'archivio conservate fino allora a Venezia ritornarono a Zara una ventina d'anni fa. E lì rimasero abbandonate perché non vi erano i fondi necessari per recuperare l'archivio ed inoltre mancava il personale che conoscesse la lingua italiana e perciò fosse in grado di riordinare i documenti. Alla fine la Croazia si rivolse all'Amministrazione Provincia di Venezia, la quale promise i fondi necessari (ancora da stanziare) affidando il relativo incarico proprio alla Ditta che gestisce la nostra biblioteca di Salzano.

Quando venni a conoscenza di questo fatto mi offersi subito volontario per il lavoro di recupero perché certamente ci sarebbero state molte cose interessanti da scoprire in quell'archivio e poi a Zara non ci sono mai stato. Ma ci ripensai non ritenendo opportuno sottolineare, con il mio eventuale modesto contributo, questa storia che già si presenta con i contorni di una comica entro i ben più vasti confini della nostra comune tragedia.

Ritornando alla fotografia di Lussingrande con la bora, vorrei ricordare che, quando il mare si trovava così agitato, era impossibile passare per quel tratto di strada che va da Vallestiene a Villa Punta. Per andare a Lussinpiccolo, come dovevamo fare noi ragazzi a piedi ogni mattina per andare a scuola (e talvolta salivamo sul carro di Majarich e tuo nonno, alle volte, usava anche la frusta per farci scendere, ma solo quando era molto arrabbiato), si doveva prendere quel sentiero che parte pressappoco dov'era la vostra casa dei Majarich e che porta sulla strada dopo la Villa Punta o, addirittura, in Valle Oscura (purtroppo ora, a tanti anni di distanza, non ne ricordo esattamente il percorso). Ti allego una fotografia del tratto di strada incriminato. La fotografia è stata ricavata da una cartolina postale illustrata senza data, ma certamente eseguita fra le due guerre mondiali. Sul retro c'è scritto "M.L. Budinich, riproduzione vietata": credo che l'autore di allora non si sarebbe mai immaginato il tipo di riproduzione utilizzato in questo caso. In ogni caso, sono certo che i diritti d'autore, a tanti anni di distanza, siano oramai scaduti da un bel pezzo.

Un altro particolare della bora: penso che la casa dei Cunei della Cappelletta, i cui orti fiancheggiavano da un lato la pineta (Sottoipini) e dal lato opposto confinavano con l'ugrada di Maria del Brusco, fosse una delle poche a Lussingrande che avesse le doppie finestre e per una ragione molto semplice. Verso il mare ci saranno trecento metri e le quattro finestre che si trovano da quella parte, tutte regolarmente con le doppie finestre, dopo qualche ora di bora diventavano talmente incrostate da uno strato di salsedine da non vederci più attraverso i vetri. Se non ci fossero stati quei doppi vetri, gli spruzzi sarebbero entrati addirittura in casa quando il mare ingrossava (volendo esagerare un po', naturalmente).

Altri brevi ricordi sulla bora:

I pini piegati dal vento nei luoghi più esposti alla bora, che quasi strisciavano sul terreno e che offrivano comodi nascondigli per noi bambini.

I pini spezzati dai refoloni più forti o i grossi rami di pino degli alberi più alti spezzati dalla violenza del vento che poi noi, confinando con la pineta, ci affrettavamo a recuperare per ricavarne legna da ardere.

I larghi piastroni leggermente inclinati in punta della Cappelletta: su questi piastroni noi ragazzi ci spingevamo fin sull'orlo quando un'ondata si ritirava, quasi una sfida al mare mosso dalla bora, per poi indietreggiare precipitosamente al sopraggiungere della nuova ondata che copriva i piastroni con alti strati di schiuma ribollente (e non ricordo ci sia stato qualcuno che il mare l'avesse trascinato con sé in questi giochi).

Le rocce minutamente scolpite dagli spruzzi della bora, quasi a sembrare il tappeto di fachiro, sulle quali era difficilissimo camminarci sopra dato noi che ci muovevamo sempre a piedi scalzi su quelle pietre a contatto del mare. La bora d'estate: in quelle occasioni, al bagno Rudy, ci tuffavamo dallo scoglio al sopraggiungere di un'ondata e poi ci divertivamo moltissimo a nuotare fra le creste dell'onde, ma poi la difficoltà stava nel guadagnare la riva aspettando il momento opportuno di calma fra un'ondata e l'altra.

Il soffio della bora che quasi ti levava il fiato se ti coglieva a bocca aperta.

L'aria della bora completamente asciutta e carica di iodio e di salsedine che ti seccava la pelle tanto d'arrossarti le gambe sopra il ginocchio, almeno a noi maschietti che portavamo estate ed inverno i calzoni corti. Proprio per questo è raro che la nostra gente soffra d'artrosi. Il penetrante fischio modulato della bora frammisto al grosso respiro della pineta scossa dal vento, che ti accompagnava nel sonno al caldo delle coltri nelle lunghe nottate di bora. Solo più tardi, nel 1953 a Trieste, trovai bora più furiosa. Eravamo allora ospiti, una trentina di ragazzi profughi reduci da Brindisi che frequentavano il nautico, in quel castelletto che si trova proprio alla fine della cordata del tram per Opicina e visibile da ogni parte di Trieste. Da lì, il panorama della città era stupendo ma, nello stesso tempo, ci trovavamo in uno dei punti di Trieste fra i più esposti alla bora. Ebbene, vivere su quel gradone della collina di una città come Trieste, dove talvolta vengono stese corde nelle strade perché i passanti possano aggrapparsi per resistere alle folate del vento, è stata un'esperienza da non dimenticare. Si aveva perfino l'impressione che la bora penetrasse all'interno del castelletto attraverso i muri.

Ricordo poi alcuni pomeriggi invernali di bora quando ci raccoglievamo per alcune ore sul sagrato del duomo, in battuta del sole e al riparo della chiesa. C'erano naturalmente i pescatori, costretti al riposo dal maltempo, che lì si radunavano per fare quattro "ciacole" dopo aver rinforzato adeguatamente gli ormeggi alle loro barche; e c'eravamo anche noi ragazzini per giocare. La guerra allora infuriava e, fra le tante novità che ci aveva portato, c'era il gioco delle figurine come quelle dei calciatori, però con scene di guerra e ciascuna con la bandierina di una delle nazioni dell'Asse (Italia, Giappone, Germania). Quelle più rare erano le figurine con la bandiera della Finlandia, nostra alleata minore, piccolo David costretto a resistere, suo malgrado, all'orso sovietico.

E la bora scura con la pioggia che qualche volta si fa sentire, ma molto leggera, anche dalle nostre parti a Venezia? Se il maltempo, che era molto antipatico perché ti bloccava in casa, durava più giorni allora restavamo senza "frasche" per le nostre due pecore e la capra, poiché eravamo costretti a tenerle nella stalla. Allora nell'emergenza, e in questo caso il vento e la pioggia ci proteggevano dagli occhi indiscreti, andavamo nei Giardinetti lì vicini e segavamo qualche ramo per le bestie nel folto boschetto di alti lauri. Hai mai assaggiato il latte di pecora o di capra che con il gusto di lauro?

Quanti ricordi mi hai sollevato con il tuo galeotto giornaletto n°12 dedicato alla bora! E ancora quanti mi si presentano a volta a volta prepotentemente! Ma ci sarà poi qualcuno che si riconosca tuttora in questi ricordi?

Ed ora, dulcis in fundo, ti aggiungo una bella poesia sulla bora, di Gian Mauro Siercovich (1954) tratta dal libro Nel Centenario della fondazione dell'Istituto tecnico-nautico Nazario Sauro di Lussimpiccolo.

Però, prima di terminare con i ricordi ti allego, a proposito del Nautico, una fotografia degli anni '30 della scuola nautica di Lussimpiccolo, tratta dall'originale fornitomi da Nives Antoncich di Spinea-Venezia. In questa scuola si diplomò mio padre nel 1925, mio fratello Mario qui fece le prime quattro classi ed io, per ultimo, ebbi l'onore di frequentare la prima nautico, con addirittura il serbo-croato come lingua madre e la lingua russa al posto del francese; per fortuna c'era l'inglese. Da questo, si può ben comprendere quanto ci fossimo avvicinati oramai alla fine della gloriosa storia di questo prestigioso Istituto.

Bora

Leggero mi sento per via
Come un uccello
Al primo volo, o Bora!

Mai così impetuosa sei venuta
A salutarmi tra questi
Monti d'esilio.

Troppo tempo ti son stato lontano,
E tu m'abbracci
Ardente nel tuo gelo

Come amante fedele abbandonata;
La tua danza sfrenata
Mi fa cantare il cuore.

Sei venuta a cercarmi
Schiumando su l'onde,
Urlando su schiere di monti,

E m'hai ritrovato. Son tuo,
Bora, respiro immenso
Della mia terra!

Canto di tempo passato
E' il tuo sibilare
Giocondo sopra il mio capo;

Sei venuta da tanto lontano,
Come me, o Bora,
Per più non tornare alla culla

Della tua forza, della mia vita,
Alla culla di roccia
Che tu fai vibrare d'amore.

E passi violenta sulla strada
D'asfalto; risvegli nei gorghi
La polvere asciutta

Che morde la pelle; tu ora
Mi mordi, Bora,
Amica che t'abbatti inaspettata

Dall'alto d'un albero gemente,
Dal Muro sgretolato
D'un orto nascosto, e mi porti

Il pulviscolo che si posava sulle cose
Quando nell'aria ferma
Brillava il sole invernale.

Quella luce che inondava l'etere
Gelida e sovrana,
L'hai spodestata, o Bora!

Sei tutto ormai: il ramo
Che freme a lungo,
La polvere che turbina

Nell'angolo della strada lucente
D'asfalto assolato;
E il soffio passa rabbioso

Quasi volesse scavare la terra.
Ma per me tu sei solo
La grande, canora ala del ricordo.

Gian Mauro Siercovich

Fraterni saluti.

Italo Cunei
Salzano, Luglio  2002

P.S. Ti autorizzo di utilizzare questa mia lettera o parti di essa per la composizione del tuo giornaletto.

Source:

  • Courtesy of Mario Majarich and Lussino bollettino, No. 13, 8 Agosto 2002.

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Created: Wednesday, September 17, 2003; Last updated: Saturday, January 01, 2022
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