«C'ero
anch'io»
di
Antonio Neumann
[Tratto da: © La Voce del Popolo,
21 gennaio 2005 - http://www.edit.hr/lavoce/050121/speciale.htm.]
Sono un ex dipendente della "Voce del
Popolo" a 3.000 dinari al mese. Non tema, non ho rivendicazioni
salariali. Rivendico soltanto il fatto che nelle attuali celebrazioni
del sessantesimo anniversario dell’uscita in stampa del giornale non sia
mai stato citato il mio nominativo pur risultando esso nell’elenco dei
suoi fondatori. Il mio nome è Antonio Neumann, fiumano piuttosto patocco
essendo nato il 16 febbraio 1924 a
Fiume in Via
dell’Acquedotto al numero civico 4 in una casona popolare di quelle
dette a ringhiera. Il perché sia nato proprio lì pur essendo stato parte
di una famiglia più che benestante è un’altra storia.
Fatto è che nel novembre o
dicembre del 1945 io fui assunto in qualità di correttore di bozze alla
redazione della "Voce del Popolo", a quei tempi collocata in via Ciotta,
proprio di fronte al Cinema "Fenice" e alla "Sala Bianca". Entrando dal
portone in via Ciotta e salendo pochi scalini si giungeva ad un lungo
corridoio all’inizio del quale, sulla destra, c’era la stanza con due
scrivania, una occupata dal direttore dott. Erio Franchi e l’altra dal
suo particolare collaboratore, Lucifero Martini. Di fronte a tale stanza
era posta la redazione sempre fornita da due scrivanie opposte, una
occupata dal redattore Turk (non rammento il suo nome) e l’altra dai
collaboratori di cronaca sportiva occasionali, Ettore Mazzieri (sport e
varietà), Renato Tich (sport e al tempo impaginatore effettivo), Nini
Barbalich (tuttofare), io (sport per pallacanestro, atletica e sci e
correttore di bozze effettivo).
Sempre nel corridoio e a
sinistra dall’ingresso la stanza dei traduttori dal croato, Segnan (non
rammento il nome) e due ragazze, una biondastra segaligna e la mia
morettina Nives (Vidigoj, ndr). Quindi, le scale per salire alla
tipografia commerciale vera e propria e, sempre a sinistra, gli stipetti
in fila per gli indumenti per le ragazze della tipografia. Infine,
proprio in fondo, la piccola stanzetta dei correttori di bozze, un
anziano capitano amministrativo dell’esercito italiano ovviamente in
borghese, un mio coetaneo, Piccoli ed io. Il capitano in genere si
addormentava, con il capo poggiato al tavolo di lavoro verso le 22 per
risvegliarsi di primo mattino. Quindi ci arrangiavamo da soli, io e
Piccoli, correggendo le stampe e facendo la spola su e giù nell’ampio
locale sottostante diviso in due metà. Nel primo c'erano dei lunghi
banconi che contenevanoi caratteri di stampa e sopra i quali venivano
posati i ripiani in acciaio levigato per l’impaginazione vera e propria
delle pagine. Intorno ad essi si affaccendavano i proti che, in base
alle indicazioni di Tich, collocavano le listelle incollonate dei
piombi; ad un lato le linotype con i loro operatori. Nell’altra parte
dello spazioso locale, la massiccia presenza della rotativa per ora
ancora immota. Nelle brevi soste del nostro lavoro di correttori si
faceva qualche scappatella al piano di sopra dove le ragazze del turno
notturno della tipografia commerciale ci accoglievano in malo modo
facendoci scappare per le sconcezze dei loro discorsi.
Sì, nel lontano dicembre
del 1945 la "La Voce del Popolo", è tutta qui. Il dott. Franchi è una
bravissima persona, Martini è un bonario Lucifero. Non sentiamo per
niente la pesante atmosfera che regna in città o ci giunge forse
attutita. Non si parla assolutamente di politica e non vengo sottoposto
ad alcuna pressione. Al mio arrivo mi sono presentato per quello che
sono, un ex repubblichino dell’esercito della R.S.I. (umile fantaccino
in grigioverde posto a difendere dai partigiani la linea ferroviaria
lungo l’Isonzo da Gorizia a Klagenfurt, nella tratta da Salona a Canale
d’Isonzo). Mi sfottono, questo si, specie Martini, che mi aiuta e che mi
vuole bene come me lo dimostrerà venticinque anno dopo, quando
insistette affinché riprendessi il mio posto in redazione senza badare
al fatto che, in quell’occasione, mi trovavo a
Fiume come
direttore di macchina di una nave italiana in breve sosta.
Dopo qualche mese da
correttore di bozze vengo promosso a redattore della seconda pagina,
quella della cronaca locale e qualche puntata in terza sotto l’occhio
attento di Martini. Chi cerca di sedurmi in qualche maniera al suo modo
di sentire le cose è Nives, la piccola traduttrice morettina. Tenta di
trascinarmi dappertutto, mi fa entrare nella corale dei Grafici, mi
convince ad entrare in casa sua e preparare insieme manifesti per una
qualche manifestazione, arriva perfino a farsi accompagnare dal
sottoscritto a Borgomarina per trascorrere la mattinata facendo lavoro
volontario per una nuova strada. Dopo una mezz’ora di piccone e pala a
torso nudo e ricoperto di sudore appiccicaticcio rinuncio e la convinco
a venire a fare una nuotata rinfrescante al "Bagno Riviera".
Accadde improvvisamente
dopo due o tre mesi di redazione, non so se per una malattia o una
rinuncia di Tich, Erio Franchi mi propose di assumere il compito di
impaginatore. Accettai con giovanile entusiasmo anche se le ore di
lavoro si allungavano. Alle 19 mi presentavo al direttore per un esame
del materiale a disposizione per la stampa, facevamo insieme un
tracciato della prima pagina con gli schemi di collocazione dei titoli e
caratteri di titolazione e un'occhiatina alle pagine successive specie
se le elucubrazioni di Tito debordavano nella seconda. E il dott.
Franchi mi fu accanto per circa una settimana e poi mi lasciò alla
responsabilità dell’impaginazione con i due maestri proti a me vicini e
prodighi, nei primi tempi, di suggerimenti. Mi spiace non rammentare più
i loro nomi.
Osservavo spesso i giornali
stranieri che a noi giungevano per seguirne gli stili, era l’epoca dei
titoli in parallelo ed io mi ingegnavo di sistemarli in tal modo. Era un
gran bel lavoro e il direttore non mancava di elogiarmi dicendomi "Lei
ha 'mahatz' per fare l’impaginatore. Ovviamente dovevo sovrintendere
anche l’operato dei correttori di bozze, dei maestri, dei linotipisti e
dell’addetto alla rotativa esaminando ogni tanto le pagine che
fuoriuscivano per verificare che l'inchiostratura fosse uniforme fino
all’ultima tiratura. Ero diventato così bravo che con una sola occhiata
alla pagina completa e prestampata riuscivo a rilevare errori ed
inesattezze.
Non mancavano i problemi.
Alle volte lo spazio previsto per una determinata pagina era eccessivo
ed allora dovevo tagliuzzare gli articoli senza offendere chi lo aveva
steso; oppure mi mancava lo spazio sufficiente per completare la pagina
ed allora, lì, sul bancone di composizione, una volta esaurito il
materiale, dovevo buttare giù un articoletto in corsivo per un elzeviro
su fatterelli popolari in città. C'erano sempre pronti anche orari
ferroviari, elenchi telefoni pubblici, vecchi avvisi pubblicitari, ecc.
Continuavo sempre a
collaborare con articoli sportivi su quegli sport e me più congeniali.
Ripeto, era un gran bel lavoro. Ma poi le cose iniziarono a mutare. In
redazione giunse un tipo taciturno, dissero che era un ingegnere (non ne
ricordo il nome), pochi anni dopo lo incontrai a Genova, un freddo
riconoscimento a mo' di saluto. Più tardi mi capitò di leggere il suo
nominativo su "Il Secolo XIV". Era implicato in non so più quale
procedimento giudiziario. Arrivarono il figlio di Elio Vittorini e
Giacomo Scotti se non vado errato, ragazzi che non riuscivo ad
inquadrare. L’ambiente si raffreddò, la quasi festosa collaborazione con
la redazione (battaglie di cartacce, rovesciamenti di cestini in testa,
lanci di aereoplanini di carta ecc., tra Franchi, Turk, Barbalich e me)
ebbe termine, i rapporti con i nuovi divennero unicamente professionali.
Nel frattempo andavano
avanti le pratiche per l’"opzione" alla cittadinanza italiana per me e
per i miei genitori (mio fratello e mia sorella erano da tempo in
Italia) finché giunse il momento di doversi recare al Consolato italiano
a Zagabria per ottenere il passaporto provvisorio ed iniziare
l’imballaggio delle cose di casa. Erio Franchi tentò in tutti i modi di
trattenermi a
Fiume. Conversammo a lungo. E fu una conversazione per me molto
difficile. Stimavo Franchi, stimavo i miei compagni di lavoro, mi
trovavo ancora bene ma mi rendevo conto che le cose andavano mutando. E
poi c’era il mio richiamo per la vita di mare (mi ero diplomato nel 1943
nella sezione Macchinisti Navali dell’Istituto Tecnico Nautico C.
Colombo di Fiume).
C’erano le difficoltà economiche della mia famiglia, la sua divisione
tra Fiume e
l’Italia. Troppe cose. E così lasciai la "Voce", mi sembra agli inizi
del 1948.
Cap. S.D.M. Antonio
Neumann
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