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Il lago di Vrana, zona
protetta, dal quale attingono gli acquedotti delle isole. |
Un segno distintivo dell’isola di Cherso
che va tutelato
Le
pecore delle Apsirtidi
di Mario
Schiavato
Questa volta incominceremo con
un’antica leggenda che narra come Eete, re della Colchide, possedeva un
vello d’oro. Avvenne che un giovane coraggioso di nome Giasone
s’impossessasse con astuzia di questo vello aiutato in ciò da una maga,
la figlia del re stesso, Medea, che naturalmente si era innamorata
perdutamente del bel Giasone. Dopo di ciò l’eroe si precipitò alla fuga
sulla nave “Argo” con alcuni suoi compagni, cioè gli Argonauti. Il
figlio del re, Apsirto, si diede all’inseguimento dei rapitori e dopo un
lungo viaggio li raggiunse. Medea, usando l’inganno di cui era maestra,
adescò con trattative il fratello Apsirto e Giasone lo uccise in un
agguato. Tagliato a pezzi il suo cadavere, Medea li gettò in mare e da
quelle membra recise dal corpo di Apsirto nacquero le isole Apsirtidi.
Sempre quella leggenda dice che la nave “Argo” sbarcò nell’attuale
spiaggia sassosa di Medea e che, caricata sulle spalle dagli argonauti,
venne portata fino al fiume Histro (che secondo gli storici sarebbe
l’attuale Danubio).
La nascita
dell’arcipelago
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Una vecchia cisterna a Ustrine. |
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Case a Lubenice. |
Dunque secondo questa antica
leggenda che ancora viene raccontata dai vecchi soprattutto di Ossero,
sono nate Cherso, Lussino e tutto l’arcipelago che le circonda, un
complesso di trentasei tra isole, isolotti, scogli e rocce emergenti.
Comunque c’è da ricordare che 12.000 anni prima della nostra era, qui
già viveva l’uomo, un uomo cacciatore di selvaggina. Ma costui non
poteva ammirare il mare azzurro che oggi circonda le isole. Il golfo del
Quarnero a quei tempi era terraferma. Solo con lo scioglimento delle
grandi masse di ghiaccio avvenuto dopo la seconda età glaciale, la
superficie dei mari del globo intero cominciò gradualmente a elevarsi
fino a 96 metri di altezza. Perciò Cherso e Lussino vengono considerate
isole relativamente giovani. Queste Apsirtidi sono praticamente i dossi
e le cime non sommerse delle montagne di una volta.
L’inospitale «Tramuntana»
Dopo essere arrivati col
traghetto da Brestova a Faresina (Porozina), che costituisce fin da
tempi immemorabili l’unico punto adatto a un approdo e il cui nome
deriva dal faro (in latino pharus), punto di orientamento importante per
la navigazione, abbiamo infilato l’unica strada asfaltata, lunga 85
chilometri, che porta, attraversando diversi villaggi, prima a Cherso,
poi a Ossero fino a Lussinpiccolo e Lussingrande. Soprattutto nel primo
tratto abbiamo trovato davanti a noi la cosiddetta Tramuntana, con le
sue coste alte e scoscese, con rocce e ripidi dorsali. È questa una zona
con scarsa vegetazione, battuta costantemente dalla bora e dallo
scirocco, dove gli abitati sono molto piccoli e altrettanto rari, come
Caisole, S. Pietro, Dragozetti, più avanti Valun, Orlec, Vrana...
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Un gregge nelle
vicinanze di Orlec. |
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Altre pecore
semiselvagge. |
Le prime
pecore, libere e semiselvatiche
È appunto su questo
territorio, dove si estendono i grandi pascoli carsici, che incontrerete
le prime pecore che pascolano libere e semiselvatiche. Queste bestie vi
accompagneranno per tutto il percorso e se volete fare con loro
amicizia, il che è piuttosto difficile, portatevi dietro un po’ di pane,
porgetelo e forse qualcuna di esse, tra le più docili, si avvicinerà e
lo mangerà dalle vostre mani. Oppure anche del sale di cui sono ghiotte,
come ci è toccato di vedere prima di Caisole quando abbiamo scorto uno
dei proprietari, un certo Nevio Filipas, che con un secchio in mano
spargeva la leccornia ai suoi pochi animali.
Aumenta
l’interesse per l’ovinicoltura
È stato con lui, membro di una
cooperativa di allevatori chersini, che abbiamo incominciato a parlare
delle pecore che, a suo dire, nelle tre isole (ha messo qui anche quelle
di Veglia), ce ne sono oltre 35.000, meglio, sempre a suo dire, l’87 per
cento di quelle che si allevano nelle isole della Croazia, comunque
molto meno delle oltre 50.000 che qui pascolavano prima della Seconda
guerra mondiale. Il numero maggiore si trova nell’isola di Veglia (oltre
20.000 capi), a Cherso e Lussino il resto, qualcosa anche nell’isola di
Arbe (circa 5.000). Tuttavia, specie negli ultimi tempi e grazie anche
agli investimenti della Contea litoranea-montana che ha finanziato
diversi progetti, il numero dei capi tende ad aumentare sempre più, come
tendono ad aumentare i piccole caseifici e i piccoli macelli. Aumenta
soprattutto l’attenzione per la produzione degli agnelli che, per
l’ottima qualità, le loro carni vengono sempre meglio piazzate sul
mercato e offerte dai tanti ristoranti della costa. Il nostro
interlocutore (come ci disse, era maestro di una scuola elementare, oggi
in pensione, proprietario di 68 animali e spera di aumentarne il numero)
aggiunse che stiamo per entrare in Europa e dunque dobbiamo fare tutti
gli sforzi per lo sviluppo di ogni ramo dell’economia e quindi nelle
isole del Quarnero dedicare più attenzione per legare l’allevamento del
bestiame, nel nostro caso delle pecore, al turismo in modo da far
conoscere agli ospiti, sia nostrani che stranieri, l’alta qualità e dei
prodotti caseari e della carne.
Una lezione
di pastorizia
Sbarcammo dalla nostra auto e
così il signor Nevio Filipas, come se fossimo una classe di suoi alunni,
ci tenne una vera lezione sulla pastorizia delle isole Apsirtidi. Lui in
piedi e noi seduti sull’erba odorosa di salvia e di timo serpillo.
Disse, e si capì subito, che ci metteva tutto il suo sapere. “Fin dai
tempi antichi, la pecora è la nutrice della gente in queste terre
infeconde. Li nutre di carne, di latte, di ottimo formaggio, che anche
voi dovete provare. E poi ancora li veste di lana, di pelli. Sulla pelle
di pecora, come se fosse una pergamena, uomini colti di queste parti
scrivevano un tempo testi ecclesiastici, leggi pubbliche, contratti e
altri documenti. Scrivevano anche lettere e poesie. Negli otri di pecora
la gente trasportava il mosto e il vino, gli stessi otri servivano anche
alla costruzione di cornamuse e dalle budella delle pecore si torcevano
le corde per le cosiddette gusle, strumenti a una corda sola, onde
accompagnare con il suono i loro canti di gioia e di dolori passati.
Tutta la civiltà delle nostre isole per millenni e secoli si svolse nel
segno della pecora. Ricordatevi di ciò quando vedrete questi animali
sulla pietraia che puntano le loro sottili gambette su quattro pietre
per poter brucare i pochi ciuffi di erba pungente, magari anche secca se
l’estate è piena di siccità. Qualche volta ne vedrete anche con la
schiena dipinta di vari colori. È per il fatto che molti di questi
animali, non avendo un territorio prativo proprio, sono dunque costretti
a spargersi su quello vastissimo comunale e sarebbe perciò difficile per
i proprietari riconoscere i propri armenti. Ancora un consiglio.
Immagino che siate dei buongustai e dunque non mancate di consumare una
bella porzione d’agnello in qualche ristorante della nostra bella isola
di Cherso”.
Il pericolo
degli sciacalli
Ci furono parecchie strette di
mano, qualche battuta spiritosa e qualche risata. Risalimmo sul nostro
mezzo. Anche il maestro Nevio Filipas salì sulla sua vecchia Seicento
rossa, meglio sul suo catorcio senza targa, mentre le pecore per un po’
ci belarono dietro. Però mancò di dirci, il nostro bravo interlocutore,
del pericolo a cui sempre più spesso vanno incontro le greggi di queste
isole. Sono soprattutto gli animali non autoctoni, come gli sciacalli e
i cinghiali, anche qualche orso arrivato a nuoto dall’entroterra, che
spesso sono la causa di vere e proprie carneficine. Interi greggi,
assaliti e scannati. Nonostante le battute di caccia che impegnano
spesso le varie società di cacciatori delle isole. È soprattutto
difficile disfarsi degli sciacalli, in quanto sono animali molto veloci
e con nidiate multiple e numerose durante una stessa annata.
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Un'antica "tondica"
per asciugare oltre al frumento, anche la lana dopo la lavatura. |
Casa abandonata a
Plat. |
Nessuno
vuole la lana
Ancora una cosa piuttosto
inquietante, della quale fummo testimoni vicino ad Orlec nei pressi del
lago di Vrana, zona particolarmente protetta in quanto la sua acqua
serve ad alimentare gli acquedotti delle isole. Eravamo scesi per
ammirare l’insolito paesaggio quando oltre un alto muro a secco vedemmo
un grande mucchio di lana abbandonata, già annerita dagli agenti
atmosferici. E questa volta è stato un vero pastore a spiegarci la causa
di quell’abbandono. Se ne stava dietro il muro e stava scaricando da una
carriola un bel carico di lana appena tosata. Ad una nostra domanda sul
perché di quell’abbandono ci disse nel suo vecchio dialetto: “Perché
abbandono la lana? Perché non la vuole nessuno! In Croazia la lana di
pecora non ha alcun valore. È un assurdo! E questo soprattutto perché
manca un vero e proprio ammasso. Da noi le pecore vengono tosate perché
bisogna farlo e non perché ciò sia un prodotto economico. Il risultato
lo vedete da voi. Qui scarichiamo la lana, tutti i proprietari di pecore
di Orlec la scaricano qui. E non solo qui. Basta che vi mettiate in
cammino su per i sentieri e ne troverete molta altra per prati e per
muretti a secco, per campi abbandonati e per roccioni. Molti allevatori
che vivono vicino al mare la scaraventano addirittura nell’acqua. Da
quanto ne so io, lo hanno detto a una riunione della Cooperativa a cui
ero presente, ogni anno vengono tosate ben 1200 tonnellate di lana, 110
di queste solo sull’isola di Cherso, oltre 200 in quella di Lussino. Lo
scorso anno ne sono state acquistate – sempre a detta di quelli della
cooperativa – soltanto 24 tonnellate. Dicono che a noi allevatori e
pastori manca il senso di un’adeguata cernita e di un adeguato
immagazzinamento della lana. Ma cosa possiamo fare a proposito? Come
sceglierla, dove immagazzinarla? Una volta la lana veniva lavata, messa
ad asciugare su particolari tondice e quindi usata dalle nostre donne
che la filavano e ne facevano calze e maglie, molta finiva nei materassi
dei nostri letti, altra acquistata, magari per poco, dai vari
commercianti che arrivavano con delle barche e i nostri vecchi si
facevano in quattro, spesso con i carri, per arrivare al mare e andarla
a vendere. Oggi? Oggi soltanto promesse e belle parole... Il mestiere
del pastore è difficile. Sulle nostre isole non ci sono prati ampi per
poter seguire le greggi. Bisogna abbandonarle e non sempre trovano erba
sufficiente e, soprattutto d’estate, acqua nei pochi stagni per potersi
abbeverare. Poi durante il periodo dello sgravarsi bisogna radunarle,
tenerle in recinti con gli agnelli, mungerle, dar loro da mangiare e
spesso è una faccenda piuttosto costosa e difficile. Questo è il
mestiere che nessuno vuole più fare”.
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A sinistra: Una
case a San Pietro sulla strada per Cherso da Faresina (Porozine).
A destra: Una vechia strada di Ossero. |
Il volo dei
grifoni
Acido il pastore riprese la
sua carriola in mano, vuota. Fischiò al suo gregge che si accalcava
sulla strada, spaventato, solo due agnellini vedemmo tra quelle bestie,
a dire il vero tosate piuttosto sommariamente. Per fortuna a toglierci
da quella situazione imbarazzante ci fu il volo ad ali spiegate di due
grandi grifoni nel cielo azzurro di quella giornata di anticipata
primavera.
Tratto da:
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