Neresine: Usi e costumi

di Giovanni Bracco

[Tratto da: Giovanni (Nino) Bracco, Neresine - Storia e tradiuzioni, Gennaio 2004, p. 42-71. © All rights reserved.]

l paese di Neresine, come abbiamo visto in precedenza, iniziò a costituirsi verso il XVI secolo, i primi abitanti erano in gran parte poveri contadini slavi, intere famiglie, presumibilmente in fuga dall'invasione Ottomana dei Balcani, arrivate per cercare pace e prosperità; erano di religione cristiana, e naturalmente portarono con se le loro tradizioni, la loro lingua e i loro usi e costumi, certamente non sapevano leggere e scrivere, altrimenti ne sarebbe rimasta qualche traccia. L'impatto con la gestione amministrativa, organizzazione sociale e cultura veneta che vigeva a quei tempi nel territorio, gestito dalle Città di Ossero e Cherso, per quanto potesse essere stato grande, fu assorbito senza ripercussioni traumatiche, sia dalle comunità residenti, che dai nuovi arrivati. La convivenza fu caratterizzata dalla tolleranza e dal rispetto reciproco, non ci sono notizie di conflitti politici o sociali per i primi tre secoli di residenza. La vita nel paese era gestita in modo autonomo dagli abitanti che continuavano a mantenere la lingua, gli usi e le tradizioni di origine, pur assorbendo gradualmente quelle del posto.

L'arrivo nel XVII secolo di nuovi emigranti di origine istriana, dalmata ed italiana, non provocò rilevanti cambiamenti, perché i nuovi arrivati erano prevalentemente uomini scapoli, che si affrettarono a sposare le ragazze del posto, formando nuove famiglie, interamente inserite nelle tradizioni del paese. I figli nati dalle nuove unioni restarono di madrelingua slava, ed anche i nuovi arrivati, in prevalenza capaci di leggere e scrivere, adottarono il dialetto del paese come loro lingua quotidiana, pur conservando la conoscenza della lingua italiana, anche perché era l'unica ufficiale scritta e parlata nel territorio ed unico strumento di acculturamento.

Le donne vestivano abiti conformi alle usanze dei paesi d'origine, che erano di foggia tipicamente balcanica e nei giorni di festa indossavano il bellissimo costume tradizionale. Fino al XX secolo inoltrato, l'abito di matrimonio delle spose del paese era rimasto il costume, tanto più riccamente adornato quanto più la famiglia della sposa era abbiente.

Le campane.

Negli usi e costumi del paese le campane hanno avuto un ruolo importante, specialmente quelle del campanile della chiesa "dei Frati", perché accompagnavano con il loro suono, a volte allegro a volte triste, la vita degli abitanti ed annunciavano con sequenze precise gli eventi quotidiani. Il loro rintocco si estendeva ben oltre l'area del paese, raggiungeva tutte le campagne circostanti, da Bora a Tarsić, fino a San Giacomo ed Ossero.

Le attuali campane sono state installate nell'anno 1930, furono acquistate con fondi raccolti in paese e tra i compaesani residenti in America, e furono ordinate ad una fonderia di Vittorio Veneto, per sostiture quelle vecchie, piccole e molto stonate.

La campana "granda", di 508 kg, fu pagata dai Neresinotti di New York raccogliendo i fondi tramite la "Susaida". Essa è dedicata alla Madonna Immacolata e porta la scritta: "Questo concerto di campane - La mirabile concordia del popolo di Neresine - unita ai fratelli lontani d'America - fece fondere - a perenne memoria del suo amore a S. Francesco e ai suoi figlioli - e alla gloria di Dio - nell'anno del Signore 1930";

La "mezzana", di 404 kg, dedicata a S. Francesco, porta la scritta: "Proteggi o Padre S. Francesco, il popolo tuo devoto e benedici i suoi faticati sudori".

La "piccola", di 279 kg, dedicata a S. Antonio, porta la scritta: "Ti richiamo, sollecita il passo". Le ultime due campane furono pagate con fondi raccolti tra gli abitanti del paese, in gran parte armatori, caratisti e proprietari terrieri.

Tutti i giorni scandivano il ritmo delle attività lavorative della popolazione, iniziando verso l'alba col suono dell'Ave Maria, a mezzogiorno annunciavano la sosta per il pranzo e alla sera verso il [42] tramonto di nuovo l'Ave Maria per il ritorno a casa. Ai bambini veniva insegnato di farsi il Segno di Croce ogni volta che suonava l'Ave Maria. A proposito dell'Ave Maria della sera, le mamme e le nonne insegnavano ai bambini, come ammonimento e raccomandazione, la giaculatoria: "Ave Maria o in casa o per la via". La campana utilizzata in queste circostanze era la "mezzana". La campana "dei Frati" era anche quella che durante i funerali, quando il corteo funebre, avvicinandosi al cimitero arrivava in prossimità del bivio tra la strada principale e quella per Halmaz, iniziava a suonare per accompagnare, col suo triste rintocco, il compaesano nel suo ultimo viaggio terreno, fino alla sepoltura.

La chiamata per le cerimonie religiose avveniva secondo le seguenti modalità: La Messa "piccola" quotidiana alla mattina di buon'ora, veniva annunciata con una sola suonata della "piccola", per non essere confusa con l'Ave Maria; la Messa "Granda" domenicale e delle altre feste comandate delle ore nove, era annunciata con un primo prolungato scampanio a stormo delle tre campane alle otto e mezzo (mezzora prima della funzione religiosa), poi un secondo grande scampanio a stormo ancora delle tre campane alle nove meno un quarto, seguito dal suono della sola "mezzana" per indicare appunto la seconda chiamata, infine alle nove l'ultimo scampanio a stormo delle tre campane, seguito dal suono della sola "piccola". La cerimonia religiosa della domenica pomeriggio, il "Vespero" veniva annunciato con un solo scampanio a stormo delle tre campane.

Nei giorni precedenti le festività più importanti come Natale, Pasqua, Corpus Domini, San Antonio, San Francesco e le altre feste più importanti, veniva lungamente suonato il "campanòn" per annunciare l'arrivo di queste ricorrenze, così era chiamato il ritmico scampanio delle tre campane della chiesa dei frati: si saliva nella cella campanaria del campanile, di solito due o tre persone per darsi il cambio, data la lunga durata del "concerto", si legavano opportunamente i battagli delle tre campane e tramite adeguati rinvii, venivano suonate contemporaneamente da un suonatore esperto, che tirava fuori una sorta di martellante allegra melodia, secondo uno spartito, mai scritto, ma fedelmente tramandato dalle generazioni precedenti. Nei giorni delle grandi festività, il "campanòn" veniva anche suonato negli intervalli tra le varie funzioni religiose.

Per le stesse ricorrenze il "campanòn" veniva suonato anche con le due campane della chiesa di Santa Maria Maddalena, che è stata la chiesa parrocchiale fino alla costruzione del Duomo. Di solito il suonatore, sempre un podgorano (abitante della contrada Bardo), si arrampicava sul tetto della chiesetta e tenendo in mano i due battagli si esibiva nei prolungati allegri scampanii, come voleva l'antica tradizione.

In quei giorni l'allegro suono dei due "campanòni" si spargeva per tutto il paese, rincorrendosi e sovrapponendosi allegramente sotto la complice spinta del vento, generando nella popolazione uno stato d'animo di festosa attesa di vigilia.

Purtroppo il "campanòn" non viene più suonato da moltissimi anni, sia quello dei frati che quello di S. Maria Maddalena, il regime politico intauratosi dopo il 1945, non consentiva esibizioni sonore di quella natura, ed ormai attualmente non ce più nessuno che possa o sia in grado di suonarlo. Le campane di Santa Maria Maddalena, contemporaneamente a quella piccola del Duomo, venivano anche suonate per richiamare i fedeli alle funzioni religiose celebrate appunto in Duomo. La morte, in qualunque parte del mondo di un neresinotto, veniva e viene tuttora annunciata dal prolungato suono di una delle due campane della chiesa di Santa Maria Maddalena, che col suo martellante e insistito rintocco sparge per il paese, un senso di struggente tristezza. (Probabilmente questa antica tradizione cesserà con la morte dei due fratelli Zorovich che ora si sobbarcano questa incombenza).

Alcuni anni fa, visto che per la drastica riduzione della popolazione del paese non era più possibile trovare la disponibilità di tre robusti uomini per suonare manualmente le campane dei frati, è stato installato un sistema motorizzato funzionante elettricamente, tuttavia da qualche tempo non viene comunque più suonata l'Ave Maria, e ci sono evidenti segni che tra non molto tempo si smetterà di suonarle del tutto.

[43] Visto che si parla di campane, è opportuno dire anche delle nuove "campane artificiali" recentemente installate in Duomo, ossia di un moderno impianto di amplificazione elettronica, finanziato anche questa volta da Neresinotti d'America, fatto installare dal parroco: trattasi di un fragoroso rumore riproducente la registrazione di un concerto di campane stonate e male assortite, che, oltre ad affliggere i malcapitati paesani nell'ora del richiamo alle funzioni religiose, con il primo scampanio quotidiano alle 6 e 30 del mattino anche d'estate, viene messo in funzione anche per battere le ore e le mezze ore della giornata e per "suonare" l'Ave Maria di mattina, mezzogiorno e sera. (Ogni mezzogiorno, prima vengono "sparati" i dodici rintocchi delle ore, e subito dopo viene suonata l'Ave Maria, anche in piena stagione turistica).

I matrimoni.

I matrimoni erano avvenimenti molto importanti e coinvolgevano in qualche modo gran parte del paese; essi erano preceduti da lunghi fidanzamenti che si concludevano con con il rituale della visita ad uno ad uno di tutti i parenti, per il saluto e la presentazione definitiva dello sposo/a. Poiché il giro delle visite, molto formali, includeva sia i parenti dello sposo che quelli della sposa, questo girar di casa in casa spesso diventava un tour de force molto faticoso, considerando la grande prolificità delle famiglie del paese.

Le feste di matrimonio vere e proprie duravano anche due o tre giorni, a seconda delle condizioni economiche della famiglia dello sposo e si svolgevano, più o meno, col seguente rituale :-Alla mattina del giorno della cerimonia il o i compari (testimoni) dello sposo andavano con il loro seguito a prelevare la sposa (neviesta) ed il suo seguito, nella casa di quest'ultima e la accompagnavano in corteo in chiesa, dove aspettava lo sposo ed insieme si recavano all'altare per la cerimonia religiosa. All'uscita dalla chiesa gli sposi venivano tempestati di confetti (bomboni de sposa), lanciati da parenti e amici, con grande gioia dei ragazzini del paese, che si lanciavano tra le gambe dei partecipanti al corteo nuziale, per farne ambita incetta, quindi la sposa al braccio dello sposo, con musica in testa, e corteo al seguito, si recavano nella casa della sposa, dove li attendavano le tavole imbandite per il ricco pranzo di nozze (di solito le portate venivano preparate dalle donne anziane del paese, notoriamente le più esperte nella preparazione dei cibi tradizionali dell'occasione). Finito il pranzo, nel pomeriggio inoltrato, si andava a casa dello sposo, ancora tutti gli invitati in corteo, con musica e sposi in testa. Arrivati a casa dello sposo, sgomento! La porta era sbarrata, le luci spente, silenzio tombale! Allora il compare dello sposo si avvicinava alla porta e batteva alcuni colpi: silenzio! Ribatteva altri colpi e dopo un po' si sentiva dall'interno una voce femminile, della suocera (secarva), che diceva: chi è? Rispondeva il compare: Signora, sono il tal de' tali che accompagna vostro figlio che vi porta la donna che ha scelto come moglie, dall'interno la voce risponde: chi è questa donna e com'è? E qui il compare iniziava a descrivere le qualità della ragazza e della sua famiglia, soffermandosi prevalentemente sulle caratteristiche più femminili, spesso, anche in funzione delle libagioni già consumate, la descrizione si spingeva verso ammiccamenti, anche velati di qualche malizia …., tra le risate represse degli astanti. A questa messa in scena, oltre agli invitati, assisteva con grande spasso tutto il vicinato e naturalmente anche tutti i ragazzini del paese. Alla fine della descrizione la voce interna snocciolava una sfilza di domande come: - Sa cucinare? Sa mungere le pecore? Sa fare il formaggio? Sa filare la lana? Sa lavorare a maglia? Ecc. Dopo l'ennesima risposta affermativa del compare dall'esterno, finalmente si spalancava la porta facendo entrare gli sposi e gli invitati nella casa approntata di tavole imbandite per il proseguimento della festa, che andava avanti per i successivi due giorni.

Fino al XIX secolo inoltrato la musica veniva fatta suonando la tradizionale cornamusa (mescìc ’), venivano anche cantate dalle donne antiche canzoni matrimoniali, che purtroppo sono andate perdute per il disuso nei tempi moderni. Anche le danze si svolgevano al suono del mescìć, esistevano due o tre tipi di danza che attualmente il gruppo folcloristico del paese cerca di mantenere in vita. Verso la fine del XIX secolo arrivarono nuovi strumenti musicali, il mescìć andò in disuso e fu sostituito nelle cerimonie nuziali e per il ballo dalla fisarmonica (armonica). [44]

Le cerimonie funebri.

Quando moriva qualcuno, veniva allestita la camera ardente nella stanza principale della casa dove la persona deceduta veniva esposta al pubblico, ai piedi del letto di morte veniva collocata una tazza con dell'acqua santa e un particolare fiore bianco chiamato cherubina, immerso nella tazza, veniva utilizzato per aspergere il morto. Tutto il paese si recava alla casa del morto per l'ultimo saluto, bambini inclusi, la prassi richiedeva che come prima cosa si andasse a far pocropìt (aspergere con l'acqua santa) il defunto e poi fare le condoglianze ai parenti. La salma, secondo le disposizioni amministrative del tempo (sicuramente nel XVIII e XIX secolo), veniva tenuta in casa per due giorni prima del funerale e della sepoltura. La sera e per tre sere di seguito, dopo cena, nella stessa casa, le donne del paese recitavano la detva, ossia il rosario dei morti. Nei tempi antichi la detva era recitata, anzi no, era cantata nel dialetto slavo del paese, ed anche in tempi più recenti nelle famiglie di "sentimento croato"; infatti, il rosario era proprio cantato come una a specie di "rap" melodico fortemente ritmato e cadenzato, a somiglianza di certi canti popolari ancora oggi in uso nelle campagne bulgaro-moldave. Nella preghiera il ruolo del canto melodico (la musica) aveva assunto la funzione principale, tant'è che le parole croate delle preghiera erano ormai deformate e storpiate in funzione dell'esigenza ritmica del cantato. Per noi bambini la recita della detva aveva un fascino irresistibile, tutti sapevamo perfettamente cantare la parte musicale, anche se non sapevamo o non capivamo le parole. Purtroppo anche questa bellissima tradizione della recita della detva è andata in disuso, anche perché in paese le poche donne rimaste, non sono più in grado di ricordare le vecchie usanze e mantenerle in vita.

La salma veniva anche vegliata nella notte da parenti e amici. Durante la veglia i padroni di casa, per rifocillare i convenuti, servivano prosciutto, vino, grappa, fichi secchi, dolci, ecc. La veglia era anche un'occasione di grande socialità, durante la quale si raccontavano vecchie storie di paese, aneddoti ridicoli ed altre amenità per tener su la compagnia, che spesso da triste si trasformava in un allegro convivio. Tuttora questa tradizione viene mantenuta in vita.

La cerimonia religiosa veniva celebrata nella chiesa parrocchiale, in Duomo, oppure nella chiesa dei Frati se il defunto apparteneva al rione Frati o Halmaz.

Durante il funerale le donne del paese eseguivano i tradizionali canti funebri ricordando le virtù del defunto (come le antiche prefiche) in dialetto slavo antico, che risuonava con forzati vocalizzi "di testa" e con forti cadenze, riscontrabili ancor oggi in certi canti popolari ucraini e bulgari. Purtroppo anche questi canti tradizionali, che sono stati eseguiti fino attorno al 1930, sono andati perduti col disuso.

Il carnevale.

Il carnevale è stato sempre una delle feste più attese e sentite in paese. Secondo il costume veneziano da cui la festa deriva, il periodo carnevalesco cominciava almeno 15 giorni prima dell'ultimo giorno di carnevale con cortei di maschere, che specialmente la sera andavano di casa in casa a fare scherzi, a giocare a farsi riconoscere e poi a mangiare e bere fino a tardi. Il dolce tipico di carnevale, che tutte le famiglie provvedevano a preparare per offrirlo alle maschere, erano i crostoli (galani o bugie). Ogni sabato e domenica sera c'era il ballo a cui partecipavano tutti i giovani del paese. Negli ultimi tre giorni di carnevale i giovani del paese formavano una banda mascherata, che con musica in testa giravano di casa in casa, di stuagne in stuagne, esibendosi in lazzi e canti carnevaleschi per portare allegria e raccogliere provviste di vino, dolci, salsicce, ed ogni altra cosa buona che i padroni di casa erano disposti a dare "volentieri", per poi fraiàr (fraiàr ofraiàt è un termine per significare mangiare e bere in modo smodato per festeggiare, dar fondo a tutte le scorte senza pensare al domani, gozzovigliare) tutti insieme in piazza l'ultimo giorno di carnevale. L'ultimo giorno di carnevale, il martedì grasso, dopo il pranzo, tutti gli abitanti in maschera si radunavano nella piazza del paese per festeggiare e salutare il carnevale. Nella piazza veniva allestito un palco dove prendeva posto il maestro di cerimonia e il o i suonatori del tradizionale mescich [45] (zampogna), che ancora oggi viene riesumato per l'occasione. Il centro della piazza era lasciato sgombro per lo svolgimento dei balli, gli animatori della festa erano gli stessi giovani della banda mascherata che abbiamo visto prima. Al suono del mescich iniziavano i balli dando fondo a tutto il repertorio tradizionale (racich, pìhat,…), venivano coinvolte nei balli le ragazze del paese, prevalentemente vestite nel tradizionale costume, e tra bevute, canti e lazzi si andava avanti fino a pomeriggio inoltrato; infine, al culmine della festa si tirava fuori il carnevale: un pupazzo di paglia in grandezza naturale, vestito di tutto punto, con cappello in testa, opportunamente preparato per lo scopo, a cui si dava fuoco tra canti, balli e sollazzi. Alla fine della festa si tornava a casa, i bimbi con un po' di malinconia per la fine di un meraviglioso gioco, i giovanotti e le signorine per cenare e tornare a ballare, nella sala da ballo del paese, fino a notte inoltrata. Nella prima metà del XX secolo, fino al 1946, il gran ballo serale dell'ultimo giorno di carnevale, veniva organizzato come "il Gran Veglione", con l'elezione del re e della reginetta della festa. Re era eletto il ragazzo che durante le serata di ballo aveva ricevuto dalle ragazze più "cotillons" appuntati con uno spillo sul vestito; reginetta era la ragazza che aveva ricevuto invece il maggior numero di cartoline (proprio normali cartoline) dai ragazzi durante il ballo. L'uso delle cartoline era dovuto, molto probabilmente, alla difficoltà di appuntare i "cotillons" sui vestiti più leggeri e delicati delle ragazze, senza sottoporle al rischio di accidentali, ma fastidiose punture.

La mattina successiva tutti in chiesa (soprattutto le ragazze) per farsi cospargere il capo di cenere: iniziava la Quaresima.

È rimasto drammaticamente impresso nella memoria dei compaesani il "veglione" del carnevale del 1946, in cui, in pieno regime di Tito, la "fronda" dei giovani del paese elesse reginetta Italia (Itala) Abate e re Latino Bracco. Certamente la Itala era una tra le più belle ragazze del paese, così come Latino sul versante maschile, ma la faccenda fu presa come una vera e propria provocazione dalle autorità politiche del paese, che aprirono un'inchiesta sull'accaduto, arrestando e mettendo sotto duro interrogatorio alcuni giovani, nell'intento di scoprire e perseguire i responsabili. Quello fu l'ultimo "Veglione di carnevale" nella storia del paese e l'inizio della fuga verso la libertà dei giovani.

Le stargurizze.

Le stargurizze (streghe) era un'antica festa dei bambini che ricorreva il 12 marzo, festa di S. Gregorio (Sv. Grhur), (forse di origine friulana, dove a tutt'oggi si festeggia con le stesse modalità), corrispondente grossomodo all'americana Halloween. Infatti, nella notte di S. Gregorio era previsto che arrivassero le stargurizze per fare dispetti ai bambini, quindi per esorcizzare l'evento e tenerle lontane dalle proprie case, essi dovevano andare a raccogliere delle fascine di ruòsie, i rami secchi che venivano potati nei vigneti e sistemarle in punti strategici intorno alla casa (questa operazione è probabilmente stata introdotta per indurre i bambini a raccogliere i rami tagliati e aiutare quindi gli adulti a pulire le vigne, che venivano potate in quel periodo dell'anno), e quando faceva buio si chiudevano in casa a spiare timorosi dalle finestre l'arrivo delle streghe. Per assecondare questa credenza e stimolare i bambini nella loro fantasia, i ragazzi più grandi si mascheravano da streghe e giravano di stuagne in stuagne agitando lumini (feralici) e gridando ossessivamente.

La festa dei coscritti.

Era la tradizionale festa di saluto dei giovani del paese, soprattutto alle ragazze, prima di partire per il servizio militare (la leva). La festa si svolgeva nei giorni precedenti la partenza, di solito un sabato e la successiva domenica, ed era abbastanza "vivace", ma era vista con particolare simpatia e comprensione dalla popolazione, data la circostanza. I coscritti si radunavano in piazza, nei locali pubblici, giravano in corteo per il paese cantando le tradizionali canzoni più adatte per l'occasione: "Addio Neresine", "Addio mia bella addio", ecc. Alla sera facevano il [46] giro delle case delle ragazze verso cui avevano aspirazioni amorose, cantando sotto le finestre interminabili serenate. I canti andavano avanti fino a notte inoltrata, e a mano a mano che l'effetto delle libagioni diventava più evidente, il repertorio dei cori tendeva sempre più verso il patetico. Alla fine dei canti escogitavano una trovata, il più possibile scherzosa e stupefacente, che generalmente consisteva nell'andare a prendere i vasi di fiori dai cortili delle ragazze del paese e portarli in piazza, allestendo un bellissimo giardino, poi andavano a prelevare dall'ormeggio un caìcio, generalmente quello del padre di una delle ragazze più corteggiate dai giovani, e lo portavano in piazza, allestendo una scherzosa messa in scena, ogni anno diversa, che la mattina dopo avrebbe dovuto stupire il paese.

È rimasta memorabile la trovata dei coscritti di un certo anno …. di molti anni fa, che hanno compiuto l'impresa di portare in spalla una barca fino al "lago" (un grosso stagno) in vetta alla collina di Bardo, dove l'hanno ormeggiata con tutte le regole.

La Settimana Santa.

La Settimana Santa era un altro avvenimento tradizionale molto atteso e sentito, specialmente per i ragazzi. I ragazzi del paese erano tutti chierichetti, quelli del rione Frati frequentavano la chiesa dei Frati, non solo per servir messa, ma per passare parte della giornata tra chiesa, sacrestia, convento, porticciolo e dintorni: tutto questo era per loro un grande terreno di gioco.

Nella Settimana Santa c'era un gran da fare: costruire il Santo Sepolcro, coprire con un panno nero i crocifissi della chiesa, tirar fuori l'antico strumento di legno, la screbetuàina o più scherzosamente grabusàlo, da grabusàt, cardare la lana, per associazione al rumore cupo prodotto da questa operazione. La screbetuàina era un grosso strumento di legno a forma di cassone, costituita da un robusto telaio e da tante lamelle di legno duro e flessibile, che azionate da un grosso perno dentato, messo in rotazione da due maniglie, produceva, tramite una cassa armonica, un forte e cupo suono. Questo strumento veniva utilizzato per richiamare i fedeli alle funzioni religiose, in sostituzione delle campane, che venivano silenziate. L'operazione di chiamata era effettuata dai ragazzi, che andavano in giro per il rione portando a spalla il grosso strumento, e dai tre punti strategici del rione, bivio per Halmaz da strada principale, incrocio stuagne Catùricevo e incrocio strada principale con vialetto verso la chiesa, chiamato in gergo Tabèlina, lanciavano una lunga "grattata" seguita dal grido corale rispettivamente: "parviput na ofizi nel primo punto, drughiput na ofizi nel secondo e sadgniput na ofizi nel terzo (prima, seconda e ultima chiamata per la funzione religiosa), con grandissimo orgoglio e soddisfazione per aver portato a termine l'importante compito. Dal 1918, col passaggio delle isole "sotto l'Italia", la chiamata nel dialetto slavo è stata abolita, è rimasta soltanto la "grattata". Ci si preparava con grande impegno anche alla "Barabàna". Barabana era nel rito della Settimana Santa, la conclusione della liturgia che con salmi cantati in chiesa ricordava il processo ed il martirio di Gesù Cristo. Il rito si svolgeva verso sera nella chiesa buia, illuminata soltanto da un particolare grande candelabro, posto davanti l'altare maggiore, costituito da un triangolo equilatero con il vertice rivolto verso l'alto, sui cui lati minori erano sistemate accese delle candele (forse tredici?). Tutti i ragazzi del paese assistevano al rito muniti di raganelle (screbetuàinize) e ogni altro tipo di attrezzo che potesse fare rumore. La cerimonia era divisa in tante parti quante erano le candele e procedeva lentamente col canto monotono e solenne dei coristi sistemati nel coro dell'altare maggiore. Alla fine della prima parte veniva spenta una candela e dopo una breve pausa si riprendeva a cantare per spegnere la successiva candela e così via. La procedura di spegnimento di ogni candela merita un approfondimento: alla fine dei canti un chierichetto, con ostentata lentezza e piglio solenne, armato della particolare canna dotata di cappuccio conico di latta all'estremità, si avvicinava al candelabro e con gesti lenti e misurati abbassava il cappuccetto sulla fiamma della candela spegnendola. Dalla folla dei ragazzi, almeno tutti quelli del paese dai cinque ai sedici anni, nel silenzio della chiesa emergeva un appena percettibile oooh! Poi riprendeva il canto. [47]

A mano a mano che si spegnevano le candele e la chiesa rimaneva sempre più al buio, la tensione aumentava. Allo spegnimento dell'ultima candela, che rappresentava nel rito liturgico il momento della morte di Gesù sulla croce, e quindi quando la chiesa era ormai completamente buia e l'emozione era arrivata al massimo, si scatenava la barabana, ognuno cercava di fare il massimo del rumore possibile con le proprie raganelle, poi venivano aperte le porte della chiesa e si correva fuori a proseguire il baccano per lungo tempo. L'emozione di questi momenti, la gioia ed il divertimento rimangono indelebilmente impressi in tutti i Neresinotti che da ragazzi hanno avuto la fortuna di partecipare a questi tradizionali avvenimenti. Poiché a Neresine c'erano due chiese ugualmente importanti, la cerimonia si svolgeva sia nella chiesa dei Frati che in Duomo, con orari leggermente sfasati, quindi la gioia e l'emozione per i bambini e ragazzi del paese, che cercavano di partecipare ad entrambe le cerimonie, veniva raddoppiata.

La parte più importante e sentita della Settimana Santa era la Processione del Venerdì Santo, anzi le processioni, perché le due chiese, Frati e Duomo, facevano due processioni separate, una il venerdì, quella dei Frati, che era la classica processione del rituale tradizionale della Settimana Santa e l'altra il sabato in Duomo per celebrare, in questo caso, la Resurrezione di Gesù Cristo, cerimonia questa, del tutto unica tra tutti i paesi delle due isole.

La processione "dei frati" si svolgeva la sera, dopo cena, nel percorso che partiva dalla chiesa, risaliva la strada principale del paese verso sud fino al bivio per Halmàz, poi proseguiva risalendo verso Halmàz, per poi ridiscendere all'incrocio dei Catùricevi e ritornare in chiesa. Lungo il percorso, su entrambi i lati della strada, venivano sistemate dagli abitanti della zona delle palle di cenere inzuppate di petrolio, a distanza di due o tre metri l'una dall'altra; al passaggio della processione le palle venivano accese in modo da illuminare, nel buio della notte, il percorso. Anche dalle finestre delle case adiacenti la strada venivano esposte le più ricche tovaglie, tappeti e luminarie. La processione procedeva lentamente, nella massima solennità, accompagnata dai canti liturgici della circostanza. I paramenti dei sacerdoti erano quelli delle grandi festività, ogni tanto la processione si fermava, i canti venivano sospesi, veniva fatta risuonare nella notte una lunga e sonora grattata del grabusàlo: grrrgrrr-grrr-grrr…., il sacerdote impartiva la benedizione alla parte di rione attraversata, poi si proseguiva verso la prossima tappa e relativa grattata e così via per quattro o cinque volte fino al ritorno in chiesa. La suggestione di quella cerimonia era immensa: le luci svolazzanti delle palle di cenere ardenti, le case tutte ben adornate ed illuminate e l'eco del monte che restituiva i suoni nella notte, rendevano indimenticabile quella serata.

La sera dopo, quella del Sabato Santo, la processione veniva ripetuta con la stessa intensità e suggestione partendo dal Duomo, questa volta però a "campane sciolte", per celebrare la Resurrezione. Il percorso veniva illuminato con le stesse palle di cenere ardenti sistemate ai lati della strada, e si svolgeva attraversando la piazza, risalendo verso Santa Maria Maddalena, percorrendo poi la strada principale verso S. Antonio, proseguendo fino ai Bonicevi (l'attuale fermata dell'autobus), per poi discendere lungo il saliso fino alla piazza e risalire infine in chiesa.

I giardini e le case lungo il percorso erano addobbate con luci e fiori, alle finestre venivano ancora esposte le più belle tovaglie e tappeti, particolarmente suggestivo era l'addobbo della chiesetta di Santa Maria Maddalena e della cappella di S. Antonio, adornate di palle di cenere ardenti e fiori. Rispetto a quella dei frati, questa processione assumeva un aspetto ancor più solenne e suggestivo, sia per la ricchezza dei paramenti sacri degli officianti e del sacerdote che portava l'ostensorio col S. Sacramento, inclusi i sei portatori del baldacchino, e sia perché ciascuno dei fedeli partecipanti portava in mano un cero acceso, generalmente quello ricevuto in dono nella tradizionale festa della Candelora. L'impatto scenografico della processione notturna, illuminata dai fuochi fluttuanti delle palle di cenere ardenti, dalle case addobbate con luci e drappi e dai ceri accesi dei partecipanti, era di straordinaria bellezza e suggestione.

La Pasqua infine veniva festeggiata con il definitivo scioglimento delle campane, che venivano lungamente suonate a stormo e con prolungati suoni di campanòn, sia delle campane dei frati che di quelle di S. Maria Maddalena. [48]

Per la ricorrenza pasquale ogni famiglia preparava le pinze, un dolce di antica origine veneta, (ove tuttora viene chiamato con questo nome), una specie di panettone senza canditi o frutta secca, e per la gioia dei bambini venivano anche preparate le uova colorate. Per il pranzo del giorno di Pasqua, immancabile in ogni famiglia era l'agnello.

Il maggio.

Con questo nome veniva e viene chiamata una festa che si celebra la prima domenica di maggio, la festa della gioventù, della primavera e dell'amore, ed è singolare che venga celebrata solo a Neresine, in nessun altro paese delle isole e altrove nella regione la festa è sentita con la stessa intensità e partecipazione. Tale festività è derivata probabilmente dall'antica tradizione dell'Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche, ecc., dove tuttora si festeggia in molti paesi di queste regioni con le stesse modalità: portando in piazza il "maggio", un albero adobbato con nastri variopinti ed eseguendo canti e balli intorno ad esso per festeggiare la gioventù e l'amore A Neresine è comunque una festa tradizionale tramandata dagli antenati che tuttora si festeggia in paese. I giovani, in "gran segreto", andavano a tagliare nei boschi vicini un grande albero di quercia (dubàz), chiamato appunto "il maggio" (muaj), e durante la notte con gran fatica lo portavano in piazza, lo installavano proprio al centro, legandolo al pozzo e lo addobbavano appendendo ai rami i variopinti fazzoletti di seta del costume tradizionale delle donne del paese. In questo giorno i giovani e le ragazze si radunavano in piazza per festeggiare l'avvenimento e ballare tutto il pomeriggio al suono della tradizionale zampogna (mescìc). Le ragazze si vestivano col tradizionale costume della festa ed i ragazzi con gli abiti delle grandi occasioni; i giovani che prestavano servizio militare di leva o che da poco erano stati congedati, amavano presentersi indossando le divise ben lavate e stirate, per far più colpo sulle ragazze.

Successivamente, probabilmente dall'inizio del XX secolo, l'addobbo del "maggio" con i fazzoletti è andato in disuso, sostituito dall'adornamento della piazza intorno all'albero coi tanti fiori, probabilmente l'alta percentuale dei preziosi e delicati fazzoletti che venivano inevitabilmente sciupati durante la festa, ha consigliato di cambiare il cerimoniale. I giovani quindi andavano a prendere i vasi di fiori dai cortili delle case delle ragazze più carine e li portavano ancora in piazza, allestendo intorno all'albero un bellissimo giardino fiorito. Infine andavano anche a prelevare dall'ormeggio la barca (caìcio) del padre della ragazza più corteggiata, o una delle più corteggiate, e con altrettanta fatica lo portavano in piazza sistemandolo accanto all'albero.

Al mattino seguente la gente trovava la piazza addobbata in questo modo straordinario. Tutti, specialmente le ragazze, accorrevano per ammirare la messa in scena e riconoscere i propri fiori. Le ragazze si fingevano arrabbiate per il furto dei fiori, i giovani si affrettavano a dichiararsi responsabili di quelli della ragazza corteggiata o che intendevano corteggiare, offrendosi di riportare il maltolto, a festa finita, nel posto d'origine, smascherando così le proprie intenzioni amorose. La festa si concludeva con ballo fino a sera inoltrata intorno all'albero al suono del mescic, sostituito nei tempi più recenti dalla fisarmonica.

La festa del maggio (majo o muàj) è stata per molte generazioni di giovani, specialmente nei tempi in cui il pudore femminile dava poco spazio alla promiscuità fra i sessi, un'importante scorciatoia per dichiarare i propri sentimenti ed allacciare nuovi amori.

La trovata di portare in piazza i fiori ed il caìcio è stata mutuata dalla festa dei coscritti. Nei tempi più lontani, quando il paese cominciava a dar segni di sviluppo crescente, e quando cominciavano a manifestarsi segni di campanilismo competitivo tra i vari rioni, l'allestimento del "maggio" è stato fatto, per un certo periodo, oltreché in piazza, anche in Podgora e in Dubcinna (tra i rioni Frati e Piazza non ci sono mai stati particolari antagonismi). [49]

S. Antonio da Padova.

La festa di S. Antonio, il 13 giugno, era molto sentita e si celebrava "dai Frati", con grande messa solenne "in terza" (messa officiata da tre sacerdoti, vestiti con i paramenti delle grandi occasioni). La chiesa era addobbata con tanti fiori, i gigli tipici della stagione. La statua del Santo veniva tirata giù dalla sua nicchia sopra l'altar maggiore ed esposta su un apposito palco a lato della balaustra. Nei giorni precedenti la ricorrenza, la festività veniva annunciata con prolungati suoni di "campanòn".

Fino al 1940, dopo la messa, si faceva la solenne processione portando la statua del santo nel grande giro del rione Frati, lo stesso percorso già descritto per la processione della Settimana Santa. Dopo lo scoppio della guerra la processione è stata limitata al giro del chiostro del convento, poi nemmeno più quello.

In paese la festività era molto sentita, quindi per prepararsi degnamente all'evento, per le tredici sere precedenti la ricorrenza, si recitava il rosario davanti alla cappella di S. Antonio, sita sulla strada principale vicino alla piazza, e dopo il rosario i fedeli (prevalentemente i giovani) si esibivano lungamente in canti religiosi, che nelle belle serate di giugno assumevano un contenuto di alta suggestione. Per dirla tutta, i rosari serali avevano un certo successo, perché per i giovani del paese era un ottima occasione per stare in compagnia delle ragazze, a cui era permesso uscire dopo cena solo col pretesto religioso.

Il giorno della festa, per l'occasione, venivano da Cherso i venditori di ciliegie e da Lussinpiccolo il signor Sicher e figlio col furgoncino dei gelati, per la grande gioia dei bambini.

La processione del Corpus Domini.

Questa era una delle più importanti festività del paese, non tanto per motivi religiosi quanto perché in questo giorno si svolgeva la più grande e solenne processione diurna dell'anno ed impegnava tutti per la sua preparazione. Il percorso era lo stesso di quella del Sabato Santo, ma si svolgeva di giorno. Lungo la strada venivano allestiti degli altari, davanti ai quali la processione si fermava, il sacerdote officiante recitava alcune preghiere e impartiva la benedizione. La chiesa di Santa Maria Maddalena e la cappella di S. Antonio erano addobbate con fiori e festoni, anche tutte le case lungo il tragitto esponevano dalle finestre i più bei tappeti e le più belle tovaglie. Le fanciulle del paese, che indossavano il vestito bianco della prima comunione, camminavano davanti al baldacchino sovrastante il sacerdote officiante, che portava l'ostensorio col S. Sacramento, spargendo fiori di ginestra sulla strada. Le stesse ragazze, il giorno prima della festa, andavano nelle campagne circostanti, a raccogliere i fiori di ginestra, con cui riempivano dei cestini di vimini, opportunamente rivestiti di velo bianco. Il baldacchino era portato da sei persone di "rango", che indossavano anche loro speciali paramenti sacri, e pagavano questo privilegio con un congruo contributo economico annuale.

S. Anna.

Il 26 luglio, giorno della ricorrenza della festa di S. Anna, era dedicato al tradizionale pellegrinaggio annuale sul monte Ossero, sulla cui vetta si trova una piccola e antica chiesetta dedicata a S. Nicola ed a S. Anna. La chiesetta, di piccole dimensioni, è costruita in blocchi a vista di pietra massiccia, accuratamente martellati, è stata riedificata varie volte perché soggetta ad essere colpita dai fulmini, la prima edificazione è probabilmente opera dei monaci benedettini Camaldolesi, presenti come eremiti sul monte nell'XI secolo. Dalle cronache antiche risulta che il monte veniva chiamato da questi monaci col nome di monte Garbo appunto di S. Nicola. Comunque, più che un pellegrinaggio, la ricorrenza era considerata in paese come la grande gita annuale sul monte.

Si partiva molto presto, alle due o tre della mattina quando faceva ancora buio, e ci si incamminava lungo gli impervi sentieri; la marcia durava, a seconda della lena dei partecipanti, dalle due alle tre ore. Lungo la salita i vari gruppi si incontravano formando lunghi cortei, naturalmente, poiché si trattava di una allegra e piacevole occasione per ritrovarsi tutti assieme, specialmente i giovani, si [50] cominciava a cantare le tradizionali canzoni, scherzare e divertirsi come in ogni gita estiva che si rispetti. Naturalmente c'era sempre qualcuno che affrontava l'ascesa con maggiore raccoglimento e a piedi nudi, per tener fede a un voto precedentemente espresso. In prossimità della vetta, in un leggero avvallamento del terreno, c'era quello che veniva chiamato il lago di Farbiezof, uno stagno lungo e stretto, pieno di acqua limpida e pulita, coperto da una fitta pineta, dove si faceva una sosta ristoratrice, si beveva un po' di quell'acqua fresca e ci si lavava gli occhi, perché la tradizione voleva che quell'acqua avesse poteri medicamentosi, appunto per gli occhi. L'arrivo sulla vetta coincideva con lo sfolgorante espandersi nel cielo delle luci dell'aurora, quindi si assisteva da lassù al sorgere del sole, lo spettacolo era di indescrivibile bellezza, la limpida giornata estiva, priva di vento, offriva uno scenario meraviglioso. Le isole intorno, Sansego, Canidole, Unie, Levrera, fino allo scoglio di Galiola, si specchiavano con mille colori sulla grande distesa del mare in bonaccia. Il contorno delle due isole di Lussino e Cherso da quell'altezza si vedeva ben stagliato, con gli infiniti promontori ed insenature, a sud Lussinpiccolo e Lussingrande, sotto il paese di Neresine, quello di Ossero, S. Giacomo e le case di Bora e Puntacroce, era una visione che lasciava senza fiato, e ancora oggi, andare sul monte all'alba significa assistere allo stesso immutato bellissimo spettacolo offerto dalla natura.

Comunque, arrivati tutti sulla vetta, il sacerdote, parroco o frate che fosse, che accompagnava sempre i gitanti, tirava fuori i paramenti sacri e celebrava la Messa nella piccola chiesetta di San Nicola. All'interno potevano accedere non più di una quindicina di persone, quindi dall'esterno la folla dei presenti partecipava in silenzio alla cerimonia, ammutolita dalla suggestiva bellezza del primo sole che illuminava la cima del monte in quel magico momento, e dalla sacralità del rito. Alla fine della Messa i vari gruppi di partecipanti si riunivano per mangiare insieme la colazione al sacco portata dal paese e cantare in coro le tradizionali canzoni popolari.

Una delle attività più praticate dai giovani in questa occasione (anche se un po' riprovevole), era il far rotolare dalla vetta del monte, grossi massi di pietra lungo il ripidissimo e sassoso pendio del versante ovest (il lato opposto a quello del paese); alla fine il gioco si trasformava in una divertente gara a chi riusciva a far staccare il masso più grosso e a farlo arrivare più lontano possibile. Anche questo era uno spettacolo molto bello, perché i massi assumevano nella discesa un'alta velocità, facendo grandi salti, a volte anche superiori a un centinaio di metri.

Un altro doveroso adempimento era la visita alla grotta di San Gaudenzio, era una grotta naturale a circa 200 - 300 metri dalla chiesetta di S. Nicola, lato nord nel versante est del monte, raggiungibile percorrendo un impervio e contorto sentiero, dove la tradizione vuole che il Santo avesse trascorso una parte della sua vita come eremita. La grotta era costituita da due locali ampi e puliti, quello più piccolo, che aveva un buco rotondo sul soffitto, si diceva che fosse la cucina e l'altro la camera da letto. A quel tempo c'era ancora una robusta trave di legno appoggiata su due pietre, si diceva ingenuamente che fosse la panca (buancić) dove il Santo si sedeva per riposarsi e quando si preparava da mangiare.

Alla fine della gita si ritornava a casa stanchi, ma felici, dove si giungeva solitamente poco prima di mezzogiorno.

Le colede di S. Maria Maddalena.

Per festeggiare la felice conclusione della mietitura del grano, il 22 luglio, giorno della ricorrenza di S. Maria Maddalena, si andava nei campi a raccogliere le stoppie, per ammucchiarle al centro del campo stesso, per poi la sera bruciarle, facendo dei grandi falò notturni (le colède). Il punto focale di tutta la festa era il prato antistante la chiesa di S. Maria Maddalena, dove durante il giorno i giovani del paese accumulavano grandi quantità di stoppie, raccolte dai campi vicini. La sera poi, appena faceva buio, veniva dato fuoco alle stoppie provocando una grandiosa colèda. Naturalmente i giovani e le ragazze del paese si raccoglievano tutti intorno al fuoco per attizzarlo e giocare ad attraversarlo di corsa, scherzando gioiosamente fino a tardi. In quella notte il paese assumeva un aspetto di alta suggestione: i molti fuochi accesi qua e là, e la [51] grande colèda nell'alto pianoro di S. Maria Maddalena che illuminava il monte e tutt'intorno, rendevano indimenticabile quella serata.

Secondo la tradizione più accreditata, la festa trae origine da una memorabile battaglia, avvenuta verso la fine del XV secolo, con truppe del regno ungherese guidate da Hundyadi e dal bellicoso frate Giovanni da Capestrano contro i turchi che assediavano la città di Belgrado. Durante le fasi finali dell'assedio, il frate diede ordine di incendiare il fossato sotto le mura, preventivamente riempito di stoppie e pece. L'enorme falò scompaginò le truppe assedianti facendole fuggire in disordinata ritirata, infliggendo così al nemico una rovinosa sconfitta. Il fatto avvenne la notte della festa di Santa Maria Maddalena. Tra quei soldati cristiani si sarebbero trovati alcuni antenati dei Neresinotti, in seguito rientrati nell'isola. In ricordo di quell'evento si è continuato tutti gli anni a celebrare la ricorrenza con le grandi colède notturne, Non a caso nella antica chiesetta di S. Maria Maddalena si conserva ancora e si venera un antico quadro, appunto di San Giovanni da Capestrano. Nei secoli la festa si è consolidata nella tradizione del paese, forse anche come pretesto per indurre i giovani a pulire i terreni già coltivati a grano, per prepararli per la prossima zappatura o aratura.

Agosto.

 "Agosto" venivano chiamati i tre giorni della fieramercato annuale del paese, che si svolgeva appunto nei primi tre giorni di questo mese. Per l'occasione arrivavano da tutte le parti venditori, che esponevano di ogni tipo di mercanzia nelle loro bancarelle, disposte in bel ordine in piazza e lungo la strada che dalla piazza porta a marina (il porto).

Il primo giorno era riservato ai Sansegotti. Neresine aveva un rapporto privilegiato con Sansego, in anni di scambi "commerciali" si era creato un profondo senso di amicizia tra molte famiglie di Neresine e altrettante della piccola e vicina isola. I Neresinotti comperavano prevalentemente l'uva da Sansego per fare il vino, mentre i Sansegotti acquistavano a Neresine tutto quello di cui avevano bisogno: olio, formaggio, vestiario, stoffe, sementi, ecc.

Nei giorni della fiera arrivavano in paese anche gli abitanti dei centri vicini, dalle isole di Sansego, Unie e Canidole (Sracàne), e dai i paesi di Ossero, Ustrine, Belèi, S. Martin de Cherso (Martinsciza), S. Giacomo, Puntacroce, ecc. In quei giorni si organizzavano anche i giochi annuali tradizionali: corsa degli asini, tiro alla fune, albero della cuccagna, ricerca di un anello in un catino pieno di farina con le mani legate dietro alla schiena (da raccogliere con la bocca), ecc. L'albero della cuccagna merita un approfondimento perché, oltre a rappresentare il clou dei giochi, veniva realizzato in modo originale. Trattandosi di un paese avente grande familiarità col mare, il gioco si svolgeva appunto sul mare, nel porto: si legava in posizione orizzontale un lungo palo di legno sulla colonna (bitta) in riva davanti al tuorić, (l'attuale ufficio turistico). Il palo era di solito un albero di nave, lungo circa dieci-quindici metri, ben levigato e pitturato con lustrofin (flatting), alla cui estremità venivano fissate tre bandierine rosse, distanti circa mezzo metro l'una dall'altra: il primo, secondo e terzo premio. Il palo veniva accuratamente spalmato con sevo (luòi), in modo che fosse ben scivoloso, dopo di ché i concorrenti, tutti i ragazzi del paese, dovevano camminare a piedi nudi sul lungo palo fino a raggiungere le bandierine e strapparle. Naturalmente l'oscillazione del flessibile palo sotto il peso del partecipante e la sua untuosa scivolosità, facevano cadere in mare dopo pochi passi il malcapitato, tra le risate di divertimento e i gridi di incoraggiamento dei presenti. A mano a mano che i tentativi proseguivano, le qualità equilibristiche dei concorrenti miglioravano e si riduceva l'untuosità del palo, il tragitto percorso lungo il palo aumentava, prima dell'ineluttabile tuffo in mare. Infine dopo l'ennesimo tentativo le bandierine venivano finalmente strappate ad una ad una, tra il festoso entusiasmo e gli applausi degli astanti, accalcati lungo le rive del porto.

Venivano anche organizzate gare sportive come la corsa, nuoto, nuoto subacqueo (gnorìt), la gara di tuffo dagli alberi delle navi in porto, ecc.; ma soprattutto si effettuavano le competizioni più attese: la regata annuale delle barche a remi e la regata annuale delle barche a vela. [52]

La regata delle barche a remi era quella più sentita perché si svolgeva tra il caici più veloci dei vari rioni, spinte dai vogatori più esperti e robusti scelti tra gli abitanti degli stessi rioni di appartenenza. L'equipaggio era composto da quattro vogatori più il timoniere, venivano selezionati anche i remi più leggeri ed efficienti dell'intera contrada.

Alla preparazione ed agli allenamenti degli equipaggi, che duravano parecchi giorni, assisteva con grande partecipazione tutto il quartiere. Alla regata prendevano parte di solito tre o quattro barche: una per i Frati, una per la Piazza, una per Biscupia ed una con prevalente partecipazione di Sottomonte (Podgòra). Il giorno prima della regata si tiravano in secco le barche affinché si asciugassero e fossero più leggere, poche ore prima della gara si ungeva la carena con sevo per renderle più scivolose nell'acqua (qualcuno azzardava formule segrete di miscele di vari grassi), il percorso era di un miglio marino, di solito da Scoìch fino all'imboccatura del porto di Magaseni. Alla regata assisteva naturalmente tutto il paese, chi dalle barche, chi da terra; le rive erano strapiene di tifosi urlanti. Poi, alla fine della regata e per i successivi giorni, quelli che non avevano vinto dovevano sopportare le canzonature dei vincitori, che di solito erano quelli del rione Frati, perché avevano la barca più veloce (la Slava del Zimich).

Analogamente accadeva per la regate delle barche a vela, ma qui la materia era più tecnica e quindi più ristretta agli "addetti ai lavori", perché ogni rione doveva scegliere la barca più veloce ed il velista più bravo e la selezione durava praticamente tutto l'anno, in quanto il mare davanti il paese, il Canal, era un campo di regata in attività ogni domenica per tutta la buona stagione dell'anno. Per i giovani bordeggiar era il divertimento più grande, specialmente quando le ragazze andavano a fare il bagno in Rapoce, Lucizza o sulle rive del porto: imbarcarne qualcuna era la cosa più ambita e prestigiosa a cui i ragazzi potessero aspirare.

S. Francesco.

La festa di S. Francesco, a cui era dedicata la chiesa dei frati, il quattro di ottobre, era anche questa una delle più importanti del paese, perché fino alla costruzione del Duomo, dedicato alla Madonna della Salute, che divenne poi anche la patrona del paese, il santo patrono era S. Francesco. La festa si svolgeva con le stesse modalità di quella già descritta di S. Antonio, con esposizione della statua del Santo, tirata giù dall'altra nicchia sopra l'altar maggiore, processione solenne nel rione Frati e "campanon".

La Madonna della Salute.

Da quando, alla fine del secolo scorso, è stato costruito il Duomo, la Madonna della Salute, a cui esso è stato dedicato, è diventata la patrona del paese, che si festeggia nel mese di novembre. Data la scarsità di neresinotti che vivono ancora in paese, questa festa ha perso un po' della sua antica importanza, anche perché era vincolata, per una certa analogia con Venezia, alla vita del mare, alla navigazione e all'armamento navale di Neresine. La festa si continua tuttavia a festeggiare con grande solennità a New York, dove, tra nativi del paese e discendenti si contano più di duemila persone. I neresinotti di New York conservano gelosamente una grande riproduzione della pala dell'altare maggiore del Duomo e la espongono durante la messa, sull'altare maggiore della chiesa dove celebrano la ricorrenza. La festa patronale, accompagnata da grande party danzante serale, è così diventata anche l'occasione di ritrovarsi, rinnovare i nostalgici ricordi e cantare insieme le vecchie canzoni che ormai fanno parte del folclore paesano.

La spremitura delle olive.

In paese, fin dai tempi più antichi, la popolazione si dedicava con particolare cura alla coltivazione dell'ulivo, da cui si ricavava il buon olio, ritenuto una delle ricchezze più preziose per le famiglie.

I mesi di novembre e dicembre erano dedicati alla raccolta e spremitura delle olive. Questo era un avvenimento molto importante per il paese, non solo per la ricca produzione di olio, ma soprattutto [53] perché cambiava un po' il modo di vivere in quel periodo. Le operazioni di spremitura si svolgevano nei tre frantoi del paese a ciclo continuo, su tre turni lavorativi giornalieri e durava parecchie settimane. Il frantoio (torcio o tuòric) era dotato delle varie macchine ed attrezzature per le lavorazioni ed era gestito dal proto (pruoto) (capo frantoio), mentre i proprietari delle olive dovevano fornire la legna occorrente per scaldare l'acqua necessaria per la produzione dell'olio e la manodopera: di solito da sei a otto persone, per azionare la grande macina di pietra ed il torchio a vite. L'unità di misura per questa attività era la mijuàda (macinata), corrispondente a quattro quintali, ossia la quantità di olive occorrenti per un ciclo completo di macinatura e spremitura. Alla macinatura partecipava tutta la famiglia proprietaria della partita di olive, in quanto la manodopera doveva trovarsi in casa o tra i parenti, e si svolgeva alla luce dei lumi a olio e del fuoco che crepitava nel focolaio, sotto all'enorme calderone di rame dell'acqua calda. Intorno al caminetto, su basse panche (buancići), sedevano i nonni ed i bambini, era una bella occasione per stare tutti insieme, si raccontavano vecchie storie di paese, aneddoti curiosi e ridicoli, era un momento di socialità indimenticabile, in cui gli anziani coglievano l'occasione per trasmettere ai giovani le antiche storie e tradizioni. Le donne portavano da mangiare per i lavoranti, c'era sempre disponibile pane e formaggio, prosciutto, vino, fichi secchi, grappa e altre prelibatezze. La parte più suggestiva era la spremitura nel torchio a mano. Dopo aver riempito le sporte con la pasta di olive ricavata dalla macinatura ed averle impilate sul torchio, si cominciava a stringere la grossa piastra a vite che schiacciava le sporte. All'inizio la vite scendeva con una certa facilità azionata dal proto, poi, quando l'avvitamento si faceva più duro, intervenivano tutti gli uomini che tiravano con due corde una grossa trave che faceva da manico alla vite stessa. Ogni tiro di trave faceva compiere una rotazione alla vite di circa cento-centodieci gradi. Il tiro della trave era cadenzato da una vecchia cantata: "longaaa eeee secondaaa, brazia guanta curaiooo, forza tira de braviiii, tutti decordiiii, tomba le viteee, pronta le asteee, zo daghe denovooo, zo, zo, zo che la basaaaa"; il "basa" (bacia) significava che la trave era arrivata al fine corsa, andando a sbattere contro il palo verticale di un argano, che più tardi sarebbe stato adoperato per lo stesso scopo. Finita la prima operazione si riportava la trave al punto di partenza, producendo un caratteristico rumore che il grosso dente di acciaio emetteva passando sopra i fori di impegno della piastra della vite: gdan, gdan, gdan, gdan……, e si ricominciava con la tirata successiva, e così via. A mano a mano che aumentava la resistenza della vite, le voci aumentavano di volume e si facevano più affannose, alla fine, quando la resistenza della vite diventava più forte della forza dei tiratori, si passava al tiro con l'argano. Si infilavano due aste di robusto legno negli appositi fori del palo verticale che fungeva da argano, si passava la fune che tirava la trave attorno al paloargano e quattro uomini iniziavano a farlo girare; anche in questo caso, per uniformare gli sforzi e cadenzare il passo, i "giratori" si aiutavano con la voce attaccando una cantata composta di secche parole di incoraggiamento, ritmicamente ripetute. Mentre la spremitura del torchio procedeva, il proto, con un enorme cucchiaio dotato di lungo manico di legno, prelevava l'acqua bollente dal calderone e irrorava la pila di sporte per facilitare la raccolta dell'olio, che insieme all'acqua calda fluiva in un grande tino posto in un apposito buco sotto al torchio. Nel tino l'olio, più leggero dell'acqua, si stratificava nella superficie della miscela e l'acqua calda, a mano a mano che il livello saliva, veniva scaricata in mare da un rubinetto inferiore. Alla fine il proto raccoglieva l'olio, schiumandolo con un altro grosso cucchiaio dalla superficie. L'ultimo strato, in cui si raccoglieva la parte più pesante dell'olio emulsionato con l'acqua, la murca, (olio di scarto) veniva travasato in contenitori separati per una successiva decantazione.

L'olio veniva conservato nelle pile o càmenize, recipienti di pietra dura a forma prevalentemente di parallelepipedo, ricavati scavando un grosso masso di pietra opportunamente squadrato. Le càmenize avevano dimensioni variabili a seconda delle necessità delle famiglie, andavano da circa cinquanta fino a oltre duecento litri, ogni casa ne aveva una o due. Per il pagamento della spremitura i proprietari del tuòric trattenevano una percentuale dell'olio prodotto. [54]

San Nicolò.

San Nicolò, il sei dicembre, era la festa più attesa dai bambini perché era il Santo che portava i doni, quello che in altre parti del mondo occidentale è Gesù Bambino, Babbo Natale, Santaclaus, Santa Lucia, la Befana, ecc.; a Neresine era San Nicolò (anticamente Sanctus Nicolaus da cui l'anglosassone Santaclaus). I bambini del paese, come tutti i loro coetanei del mondo, in quella fatidica notte erano in spasmodica attesa dell'arrivo di San Nicolò, che ovviamente scendeva dal monte Ossero, ed essi non si stancavano di spiare nella buia serata la montagna, nella speranza di vedere un lumicino, che qualcuno immancabilmente giurava di aver visto. (San Nicolò de Bari, la festa dei scolari, a chi non fa la festa un pugno sula testa).

Il periodo Natalizio.

Il periodo delle feste di Natale e fine anno era caratterizzato da attività di preparazione straordinarie, sia per i grandi che per i più piccoli. Le donne preparavano le cose buone come l'uva passita fatta seccare in soffitta, le mandorle glassate in croccante, i fichi secchi, ipan de fighi (smocvegnazi), sia quelli fatti con fichi (carcgne) secchi macinati e impastati con un po' di grappa e semini di finocchio selvatico, ma soprattutto quelli prelibatissimi fatti con i polussìci, fichi dolci (belizze) fatti seccare al sole aperti, spaccati in due e poi pressati in particolari tazze di legno dette ciàssize.

I bambini erano in attività frenetica, bisognava andare in campagna a raccogliere il muschio per preparare il presepio, ogni casa ne aveva uno; l'albero di Natale non veniva usato, solo in tempi molto recenti è stato introdotto. I ragazzi più grandi del rione Frati preparavano il presepio nella loro chiesa. Nella cappella di S. Antonio si approntava un tavolato, grande quanto tutta l'area della cappella, e per parecchi giorni lavoravano per il suo allestimento: fare il cielo, le luci, le grotte, mettere il muschio, inventare ogni anno una sceneggiatura nuova, mettere bene in vista il palazzo di Erode, la città di Betlemme, sistemare bene i pastori, le pecorelle e quant'altro in dotazione della chiesa per la costruzione del presepio. I pastori, gli animali, ed i vari personaggi erano di grandi dimensioni (circa 20-30 cm) ed erano molto antichi, conservati con cura da generazioni di frati. Anche in Duomo si approntava un bel allestimento natalizio, nei tempi più antichi si faceva una grande grotta di cartapesta con tutti i personaggi della Natività nell'altare della Sacra Famiglia, poi si è passati ad allestire un grande e bellissimo presepio, a somiglianza di quello dei Frati; dalla fine della guerra questa tradizione in Duomo è cessata del tutto.

Per i ragazzini un'altra attività molto attesa era "andar far cadìt", si trattava, secondo un'antica tradizione, di accompagnare il frate a benedire le case del paese nei giorni precedenti il Natale. Il frate, vestito con i paramenti leggeri (camice bianco e stola), accompagnato da uno o due chierichetti, vestiti anche loro con la rituale "cotta", attrezzati con turibolo (cadìlo) e aspersorio, andavano di casa in casa a portare la benedizione e gli auguri di Natale. Si entrava nella casa, il frate scambiava i convenevoli di rito con gli abitanti, poi dopo le giaculatorie di circostanza, dava la benedizione con l'acqua santa al presepio, che grande o piccolo che fosse, tutti avevano allestito. Poi mettendo un po' d'incenso nel turibolo, in cui il chierichetto si era premurato di attizzare le bronze (braci), faceva cadìt tutta la casa, inondandola del tipico buon profumo (cadìt, fumare, inteso nel significato di incensare). Alla fine il frate metteva (donava) un cucchiaino d'incenso in un piattino, appositamente preparato dai padroni di casa, che nel frattempo avevano riempito un piatto di frittole da offrire agli ospiti. Per i ragazzini questo era il momento più atteso, perciò ne approfittavano, cercando di mascherare la loro golosità, con mal celato atteggiamento di ritrosia.

Lungo il percorso dell'andar di casa in casa le bronze del turibolo si consumavano, così i chierichetti si facevano dare bronze fresche dagli stessi padroni di casa, che le prelevavano dagli spàher e dai fogoler (ug'gnisce), allegramente scoppiettanti per la circostanza e la stagione. I ragazzini, attraverso il rituale erano diventati esperti di frittole, ormai sapevano dove e chi faceva la frittole più buone e poiché visitare tutte le case del paese richiedeva un certo tempo, erano frequenti le baruffe per accaparrarsi gli stuagni più ambiti. [55]

I bambini dei vari stuagni, alla sera dopocena nei giorni precedenti Natale, andavano "ad agnoleti ", ossia si raggruppavano in corteo e con una lucerna in mano (feralić) andavano davanti alle porte chiuse delle case dei vicini a cantare la filastrocca chiamata agnoleti: "agnoleti a uno a uno, la Madona de San Bruno, de San Bruno in compagnia, a rosario bon Maria. Agnoleti a dò a dò, la Madona de San Nicolò, de San Nicolò in compagnia, a rosario bon Maria. Agnoleti a tre a tre, la Madona dei San Tre Re, dei San Tre Re in compagnia, a rosario bon Maria. Agnoleti a quattro a quattro, la Madona de san Marco…. E così via … zinque, sei, sette, otto, nove, diese, ecc.". Alla fine dell'esibizione i bimbi chiedevano: "amate la canzone?" Se la risposta era affermativa concludevano con: "tanti ciodi gavé sulla porta, tanti angeli che ve porta", poi i vicini li facevano entrare e offrivano loro mandorle caramellate, frittole, qualche pezzo di torrone, caramelle, ecc. Qualche volta per scherzare i vicini rispondevano di no alla richiesta di gradimento della canzone, in questo caso l'ultima filastrocca diventava: "tanti ciodi gavè sulla porta tanti diavoli che ve porta, tanti travi gavè in cantina, tanti diavoli che ve strassina". La storia si ripeteva per tante sere quante erano le case del vicinato da visitare.

I giorno della vigilia di Natale era anche quello dedicato a tramandare ai discendenti, figli, nipoti o anche fiozi (figliocci), l'arte, un po' arcana, di far crisàt, ossia ottenere cose straordinarie con parole magiche e misteriosi segni di croce, perché questo era il giorno in cui questi poteri potevano essere trasferiti da una persona all'altra. In questo giorno si insegnava infatti come distruggere con un segno di croce, fatto con una la manèra (scure), un siòn o siùn (tromba marina) in mare, questo valeva naturalmente per i marinai; si insegnava anche come guarire le distorsioni, appunto con segni di croce, misteriosi intrugli e manipolazioni ed altre cose di questo genere.

II dolce tradizionale di Natale erano le frittole: delle frittelle fatte con un impasto precotto di farina, uva secca, pezzetti di mela, e altri ingredienti, comunque erano buonissime.

Il piatto tradizionale della vigilia di Natale (Nanabàdgni) era baccalà con polenta (una specie di stoccafisso alla vicentina). Il pranzo di Natale era invece càrpize (letteralmente straccetti), ossia lasagne di pasta fresca fatta in casa, con svazeto (sugo di carne) e carne di dindio (tacchino) in umido, o di gallina faraona o agnello, con patate al forno e/o capuzzi garbi. Durante il pranzo di Natale, per la gioia dei bimbi, si doveva ancora far cadìt, ossia bruciare su delle braci messe in un piattino, l'incenso ricevuto in dono dal frate, durante la benedizione annuale precedentemente descritta.

La sera dell'ultimo giorno dell'anno era dedicata al gran ballo al "cinema": "Veglione" con elezione del re e della reginetta della serata con cartoline e cotillons; il "Veglione" aveva lo stesso svolgimento di quello già descritto per la festa di carnevale.

La mattina del giorno di capodanno, i bambini del paese si attrezzavano con la più grossa mela cotogna (cugna) che potessero reperire, la trapassavano con un ramo di rosmarino (rusmarin) e dopo la Messa Granda in Duomo, andavano in piazza, quel giorno più affollata che mai, a passare di crocchio in crocchio per augurare "bon prinzipio" (buon principio) agli astanti, esibendo la mela cotogna; gli uomini contraccambiavano l'augurio infilando nella mela un soldino. I bambini tornavano a casa all'ora di pranzo mostrando felici il trofeo carico di monetine.

La cucina.

La cucina di Neresine può essere assimilata alla cucina veneta, d'altra parte le prime popolazioni arrivate in paese oltre cinque secoli fa, hanno dovuto adattarsi, certamente di buon grado, alle materie prime che hanno trovato sul posto ed a proseguire e sviluppare le coltivazioni esistenti. La base alimentare si è dunque orientata verso l'olio d'oliva, abbondantemente prodotto, il vino, i cereali, i legumi, la carne di pecora e di maiale, che ogni famiglia allevava, il formaggio pecorino, il pesce, ecc. [56]

I piatti principali erano quindi:

  • Il brodo di carne in tutte le sue varianti (di pecora, castradina, gallina, ecc.) prevalentemente con pasta fresca fatta in casa, ma anche con riso o pasta.
  • Lasagne (càrpize) di grano tenero fatte in casa col vaiàlo (mattarello), condite con svazèto (sugo di carne).
  • La polenta in tutte le sue tante versioni: col sugo di carne, col pesce in qualunque modo preparato, col latte, ecc. Un piatto molto tipico era lo scrob, polenta semifluida cucinata nel brodo ottenuto con la cottura dei residui del prosciutto ed eventualmente con l'aggiunta di costine di maiale salate. (Il termine scròb è probabilmente di origine inglese, con cui ancora oggi si chiama in quella lingua una polenta analoga, piatto tipico dei marinai).
  • Gnocchi di patate conditi con svazeto.
  • Il brudeto (sugo di pesce, corrispondente al brodetto romagnolo e veneto) per condire polenta, pasta, lasagne, ecc. I pesci più usati per fare il brudeto erano (e sono), in ordine di prelibatezza: i dolcissimi calamari (lig'ne), la scarpena (cappone), un misto di scarpoch (scorfano), bisibaba (prete), còcot (galinella), ragno (tracina); anche il brudeto di gronco (gruh) era molto apprezzato. A proposito del brudeto de calimari, si faceva molta attenzione durante la pulitura dei molluschi, di non rovinare, ma conservare attentamente le preziose petùje, delle vescichette gelatinose e trasparenti posizionate all'interno del corpo, verso la parte posteriore, perché queste, versate nel brudeto durante la cottura, lo trasformavano in un delicato squisitissimo condimento. Una delle raccomandazioni della nonna era: Dio guardi (Buoh ciùvai) far el brudeto de calimari senza le petùje!
  • I calamari con la bruoscva (verza o cavolo), questo piatto è uno dei più tipici e prelibati, degno di fare la sua bella figura nelle migliori cucine regionali italiane e non solo. Anche in questo caso "Buoh ciùvai senza petùje".
  • Bùsara (una specie di brodetto un po' più diluito) di granchi garmaì, di scampi o frutti di mare in genere, da accompagnare anche col riso bollito.
  • Agnello arrosto, tipico e squisito piatto di carne di agnello in umido, fatto cuocere a fuoco lento per parecchie ore. L'agnello più ricercato era quello del monte, ossia cresciuto negli aridi pascoli del monte Ossero, perché ricchi di erbe aromatiche e di sale, portato dalle forti bore invernali. Molto richiesto era anche quello di Tarstenik, piccolo scoglio a largo di Puntacroce, ricco si salvia e di sale marino.
  • Capuzzi garbi (cavoli conservati sotto aceto) con luganiga (calbassìzza) (salsiccia di maiale) o altro pezzo di carne di maiale salata e affumicata.
  • Minestroni di legumi come: pasta efasioi, arricchiti magari con una salsiccia o un pezzo di prosciutto o di porcina.
  • Minestre di ceci, fave, lenticchie e cicerchia (zìzeriza).
  • Risi e bisi, risi na cumpìru (riso e patate).

A proposito di risi na cumpìru, vale la pena raccontare un simpatico aneddoto riguardante questa minestra, che era considerato piatto povero e poco pregiato. Nei tempi della maggiore attività di produzione ed esportazione di legname da ardere, due giovani di Neresine erano andati a lavorare a giornata per caricare di legname in Draga (un posto (get) a Bora, nell'isola di Cherso di fronte al paese) una nave di romagnoli. Nel contratto di lavoro era previsto che ai caricatori fosse fornito il pranzo di mezzogiorno a bordo, mentre la sera sarebbero ritornati a casa col caicio. I due giovani durante la giornata di lavoro hanno fatto amicizia con l'equipaggio della nave, la sera quindi sono stati invitati a rimanere a cenare con loro e stare ancora un po' in compagnia. Hanno chiesto cosa ci fosse per cena e avendo saputo che c'era minestra romagnola, hanno deciso di restare, dicendo tra loro: "piuttosto che tornar a casa e magnar quei soliti prochieti (maledetti) risi na cumpiru, per una volta cambiemo e magnemo minestra romagnola ", che poi alla fine si è rivelata i soliti detestati risi na cumpiru. [57]

Veniva fatto largo uso di carne di maiale salata e affumicata, che si conservava in baie di legno (tigne), una specie di piccoli tini a forma di tronco di cono. Le parti più pregiate erano naturalmente i prosciutti lavorati alla dalmatinska (al modo dalmatico) e il lombolo (luòmbul), filetto di maiale salato ed affumicato, una specie di coppa. Degne di menzione sono le ciriève: trippe salate e affumicate, ricavate dall'intestino tenue del maiale, che si mangiavano d'inverno arrostite sulle bronze (braci) del fogoler.

Nel periodo invernale si mangiava frequentemente la bruoscva (verza) e la blitva (bietola), ed anche la polenta con brudeto di seppia (sepa o sippa) o polpo (folpo o cobuòdniza) salati e seccati al sole, poi bagnati per qualche tempo per ammorbidirli, prima della cottura. A proposito di cobuòdniza, questo termine dialettale viene usato nel gergo quotidiano per definire uno bagnato fradicio (bagnado come una cobuòdniza, oppure ti gà ciapà una cobuòdniza, o anche in dialetto slavo, mokar kako cobuòdniza), dalla consuetudine di mettere a bagno per qualche tempo ifolpi secchi, prima di cuocerli.

Un piatto tipico estivo che si mangiava spesso la sera erano le patate bollite con radicchio crudo, il tutto mescolato insieme e condito con olio e aceto, accompagnate con pesce fritto o alla griglia, o anche con le sardele salade (alici salate). I pesci più usati in questo piatto erano le squisitissime maride o mènule di Rìduia, forse uniche al mondo con quel sapore, dette anche scherzosamente luganighe lussignane.

Nel periodo estivo ogni famiglia preparava il concentrato di salsa di pomodoro occorrente per il fabbisogno della cucina di casa. Si raccoglievano i pomodori maturi, si strizzavano con degli stracci bianchi a maglia larga per trattenere le bucce ed i semini, ed il liquido mescolato con la polpa e opportunamente salato, veniva distribuito sulle dasćìzze, ossia su dei contenitori rettangolari fatti di tavola di legno, lunghi circa un metro, larghi una quarantina di centimetri e alti circa tre centimetri, e si mettevano a seccare al sole, rimescolando ogni tanto l'impasto, a mano a mano che si addensava. Alla fine la salsa, una pasta densa di colore rosso scuro, veniva raccolta per la conservazione nei bozoni, vasi di vetro con relativo tappo smerigliato a tenuta ermetica. Nel solleone di agosto i muretti dei cortili delle case del paese erano pieni di dasćìzze di salsa, ed i ragazzini, correndo per i loro giochi sù e giù per gli stuagni, non potevano fare a meno, passando vicino, di dare una ditata nella salsa per succhiarsi la deliziosa crema, inseguiti dagli urli e improperi delle padrone di casa.

Stranamente i funghi, che crescevano e crescono abbondanti, non venivano considerati commestibili, anche se sono presenti numerose varietà molto pregiate come: i marzuoli, abbondanti nel periodo invernale, i galletti ed i chiodini. Anche se meno pregiati, si trovano pure i prataioli, le mazze di tamburo e le colombine. Non sono presenti i funghi porcini. anche se sono abbondantissimi i porcinelli.

I dolci tipici, come già detto in altra parte, erano: lefritole nelle feste natalizie, i crostoli per carnevale e le pinze per Pasqua. Nei tempi più antichi nelle pinze veniva messo, per dare colore e un particolare gradevole sapore, dello zafferano (saffruàn), che veniva coltivato negli orti vicino casa; anche questa usanza tipica di Neresine è andata perduta. Per tutte le stagioni andavano bene lo strudel di mele (prevalentemente mele cotogne) le palacìnche (una specie di crepes) ripiene di un impasto fatto di ricotta, cacao e zucchero oppure di marmellata, possibilmente anche questa di mele cotogne fatta in casa. Tra i dolci vanno anche ricordati i kifeli, un tipo di fritelle fatto con un impasto dolce di patate, di forma affusolata, variamente incurvate (probabilmente di origine austriaca). Devono essere ricordate anche le più antiche ulìta nadègniene (trippe riempite, gonfiate), si trattava di riempire l'intestino grosso del maiale ed anche della pecora, con un impasto dolce di farina e uova, simile a quello delle frittole, contenente uva passita, pinoli, mandorle, ecc., ne veniva fuori una specie di grosso salame, che si faceva cuocere per un certo tempo in una grossa pentola e poi poteva essere mangiato in fette belle calde, oppure conservato e mangiato nel tempo, tagliato a fette e arrostito sulla brace od anche riscaldato in altro modo, anche in frittura. [58]

Degne di menzione sono le grosse olive nere chiamate guórcule (amarognole), cotte al forno in apposite teglie, cosparse con abbondante zucchero.

Un altro dolce, di introduzione più recente, ma diventato tradizionale dalla fine del XIX secolo, erano "le fave dei morti", probabilmente introdotto dall'area triestina ed istriana, ma comunque immancabile appunto nel periodo delle celebrazioni dei defunti e della festa patronale della Madonna della Salute, il 4 novembre. Erano dei pasticcini variopinti, fatti di pasta di mandorla, in forma di grosse fave, tuttora diffusi in tutta la parte italiana dell'Adriatico settentrionale, e di cui ogni famiglia non poteva fare a meno nel periodo delle festività autunnali.

Un piccolo approfondimento lo merita il pane, da sempre alimento fondamentale. Il pane, fin dalle prime origini del paese veniva fatto in casa, ed ogni casa, o gruppo di case, aveva il proprio forno. Nei tempi più antichi il forno era costruito in robusta muratura all'esterno della casa, in un angolo del cortile, ed aveva forma di piccola torre con l'apertura ad altezza d'uomo ed il tetto spiovente di coppi, ed era completo di alto camino, che si stagliava nella parte anteriore. Il forno antico aveva l'aspetto di una chiesetta in miniatura, coll'alto comignolo che sembrava un campanile. Un antico proverbio in dialetto slavo, per indicare comportamenti molto primitivi, diceva: "chi ni nicad zriecvu videl, i na pećè se clagna" (chi non ha mai visto una chiesa, si inchina anche davanti ad un forno). Successivamente, con la costruzione delle nuove case i forni sono stati spostati all'interno, in cucina o in baraca. Il pane si faceva generalmente una volta alla settimana, veniva impastato in apposite madie (copànize) o nello smur (madia rettangolare a fondo arrotondato, ricavato scavando un grosso mezzo tronco d'albero), e confezionato in forma di struzze o colùbe (grosse pagnotte), con farina appena macinata, ricavata dal grano coltivato nei gorghi (tieghi) del paese. Alcune struzze venivano tagliate in fette e biscottate diventando le passamète. Le passamète erano mangiate nell'ultima parte della settimana e venivano date agli uomini da mangiare per merenda (jùsina) col formaggio, quando andavano a lavorare in campagna, erano più adatte per essere portate nel rùssak (zaino) di tela assieme agli attrezzi (spone, sfilazzi, òbruci, òglavize, ecc.) e l'immancabile botiunich di bevanda (bevuanda). Il botiunich era una bottiglia rivestita di tarnela, ossia ricoperta da un fitto intreccio di trefoli di corda catramata, che forniva un isolamento termico ed una protezione contro eventuali urti. Dallo stesso rivestimento si ricavava anche una robusta maniglia, intrecciata con la stessa corda, per il più agevole trasporto. Il botiunich ed il più grosso botiun, erano i caratteristici recipienti dei marinai, utilizzati per trasportare piccole quantità di vino o miscela di vino e acqua, appunto la bevanda.

Le passaméte erano anche molto usate per fare merenda con "la soppiza", ossia per essere inzuppate in un mezzo bicchiere di vino arricchito di zucchero e mangiate col buon formaggio pecorino. Per fare il pane bisognava macinare il grano per ottenere la farina, quindi ogni stuagne aveva almeno un impianto di sarne (la esse va pronunciata dolce), ossia le macine. Le sarne erano costituite da un robusto telaio di legno, costruito su due piani: sul piano superiore, ad altezza d'uomo erano montate due coppie di grosse pietre rotonde, del diametro di circa 60 centimetri l'una, messe una sopra l'altra. La pietra inferiore era fissa e portava al centro un perno rigido di legno, rastremato a forma conica, regolabile in altezza con un ingegnoso sistema di cunei montati nel piano inferiore, mentre quella superiore, che era forata al centro con un buco di circa 10-12 centimetri di diametro, poggiava sul perno della pietra inferiore tramite una traversa-cuscinetto di legno duro, in modo da poter ruotare senza attrito. La pietra superiore aveva incastonato sul lato esterno della circonferenza una specie di maniglione forato di ferro, in cui si infilava un lungo bastone opportunamente sagomato, tramite il quale si faceva girare a mano la macina. La macinatura del grano era effettuata mettendo in rotazione la pietra superiore, versando, a mano a mano che la macinatura aveva corso, i chicchi di grano nell'apposito foro. Il grado di finezza della farina era determinato regolando in altezza il perno fisso, attraverso gli appositi cunei del piano inferiore. Di solito l'impianto di sarne era costituito da due gruppi di macine: una per ottenere la farina per fare il pane e l'altro per quella di granoturco (farmenton ofarmentun) per fare la polenta. [59]

Il lunedì mattina, giorno in cui solitamente si faceva il pane, tutto il paese era inondato dal caratteristico buon profumo del pane fresco.

Oltre al pane, altri prodotti da forno erano: le pinze già dette, ilpan de Milan, una specie di pagnotta dolce intrecciata a forma di treccia, fatta con un impasto somigliante a quello delle pinze, il paprégnak, squisito pane impastato con acqua e miele (di solito l'acqua di lavaggio dei telai delle arnie dopo l'estrazione del miele), il pane impastato con pezzetti di fichi secchi e la loìniza, ossia pane impastato col grasso (luòi) di maiale ed anche di pecora.

Come non parlare a questo punto dei fichi! Il mite clima marittimo delle isole e la lunga siccità estiva creavano le condizioni ideali per la crescita spontanea degli alberi di fico, e in paese infatti ce n'erano ovunque: negli orti, nelle vigne, nei terreni di pascolo, perfino nei megnizi e non richiedevano alcuna particolare cura, tranne la raccolta dei frutti maturi. Fondamentalmente c'erano quattro qualità di fichi: le carcgne, le belizze, lepetruofque e le ciarnique.

Le carcgne erano (e sono) fichi giallo-verdi di pasta rossa, dolci e buoni, ed erano quelli più diffusi perché si prestavano per essere essiccati al sole sugli appositi bàraz, che erano dei grossi telai di legno, su cui erano distese delle stuoie di sottile canna (le stùrize o stùrich), particolarmente adatte per l'essiccazione dei fichi. I bàraz erano anche dotati di una robusta copertura di tela impermeabile, fatta a forma di tetto spiovente, che la mattina veniva aperta per lasciare che il sole svolgesse liberamente l'importante funzione dell'essiccamento, mentre la sera, al tramonto, veniva chiusa, per evitare l'entrata dell'umidità della notte. La copertura del bàraz veniva chiusa anche di giorno, in caso di pioggia, anzi in caso di minaccia di pioggia, le donne correvano a casa per coprire, con priorità assoluta il baraz, poi provvedevano a recuperare la capra, di solito pascolante nei dintorni e portarla nel cotaz (casetta ricovero), ed infine portare in baraca, o comunque in un posto asciutto le frasche ed i legni occorrenti per il fuoco di casa. Attività consueta di tutti i bambini del paese, nel periodo dell'essiccamento dei fichi, era l'infilarsi sotto il bàraz per raccogliere col dito e leccare la dolcissima goccia di medo (miele), il mieloso liquido che fuoriusciva da ogni fico. In questa operazione i ragazzini finivano inevitabilmente per toccare con la testa lo stùrich grondante appunto di medo, per cui in questa stagione avevano sempre i capelli appiccicosi per l'accidentale contatto col liquido zuccherino.

I fichi, una volta essiccati, erano conservati in grossi cassoni di legno (scrigne), distendendo sul fondo della cassa, prima uno strato di foglie di alloro, poi uno strato di fichi secchi, poi un altro strato di foglie, e ancora uno strato di fichi e così via fino al riempimento della cassa, poi il tutto veniva pressato con pesanti pietre e lasciato a stagionare per l'inverno. Durante la stagionatura i fichi si ricoprivano di uno strato di bianco zucchero, tanto da sembrare infarinati. Nel periodo invernale erano il companatico buono per ogni occasione, erano utilizzati nel caffelatte, naturalmente caffè d'orzo, per la colazione della mattina, al posto dello zucchero: un pezzetto di fico ed un cucchiaio di caffelatte. Nelle fredde mattine invernali gli uomini gradivano, per scaldarsi, sorbire un bicchierino di grappa (rachìa) accompagnato con trequattro fichi secchi; poi prima di uscire, non mancavano di portare con se nel russak, assieme alla merenda (perjùsina) anche un sacchetto di fichi. I ragazzini d'inverno avevano sempre le tasche dei pantaloni irrigidite da uno strato di zucchero che si formava all'interno, per il tenere sempre dei fichi secchi in tasca, assai spesso rubati di nascosto dal cassone di famiglia, custodito nella soffitta di casa.

Per variazione si facevano con gli stessi fichi secchi i pandefighi (smoqvégnazi); di solito venivano utilizzati quelli "meno ben riusciti", si macinavano con la macchina tritacarne e si impastavano con della grappa e semini di finocchio selvatico, confezionandoli in forma conica; anche questi, dopo una stagionatura in soffitta, posati sopra una grossa foglia di fico, venivano mangiati d'inverno, tagliati a fettine; erano comunque una squisitezza, specialmente nelle fredde giornate de fortunal de bora, accompagnate anche con la grappa.

Le belizze erano fichi gialli, di pasta gialla, dolcissimi, anche questi erano seccati al sole nel bàraz, in questo caso però erano tagliati a metà e aperti per evitare l'eventuale fermentazione, visto il loro altissimo tasso zuccherino. Da secchi si chiamavano polussìći (gemelli), con cui venivano ancora [60] fatti dei pandefighi: i polussìći venivano impilati e pressati in apposite forme si legno a forma di larghe tazze, chiamate ciàssize, leggermente inumiditi con succo d'uva, grappa, e aromatizzati con semini di finocchio ed altri ingredienti, poi dopo la consueta stagionatura in soffitta erano pronti da mangiarsi a fettine. Questi pandefighi erano i più buoni e ricercati, ma venivano dati ai bambini con parsimonia, perché erano riservati per le grandi occasioni, feste di Natale e capodanno, importanti ricorrenze famigliari, ecc. (Assomigliavano un po' al panforte senese, ma assai più buoni!).

Le petruòfque erano grossi fichi bruni a pasta rossa, molto prelibati, si mangiavano soltanto freschi come frutta, sia in giugno sotto forma di fior di fico e sia in settembre.

Le ciarnìqve erano fichi di color bruno scuro e di più piccole dimensioni, anche questi erano molto dolci e si mangiavano solo freschi.

Sia le petruòfche che ciarnìqve erano meno coltivate perché i loro frutti non erano adatti per essere essiccati, quindi per l'economia delle famiglie quello che non poteva essere conservato per l'inverno aveva meno pregio.

I soprannomi.

Tra gli usi tradizionali va menzionato anche quello dei soprannomi; infatti, tutte le persone del paese erano e sono individuabili con un soprannome di famiglia o individuale. Questa usanza col tempo è diventata una necessità vera e propria, perché il paese si sviluppò nei secoli partendo da pochi ceppi famigliari di origine, senza scambi matrimoniali con i paesi vicini, quindi nel corso degli anni tutti gli abitanti si sono trovati a condividere i pochi cognomi disponibili, circa una diecina. Inoltre, siccome la tradizione vuoleva che i discendenti portassero prevalentemente i nomi degli antenati, che non si discostavano dai comuni Giovanni, Francesco, Domenico, Antonio, Giuseppe, ecc., si è verificato che parecchie diecine di persone portavano lo stesso nome e cognome, da qui l'esigenza di trovare un più facile modo di riconoscimento, ricorrendo appunto ai soprannomi. I primi soprannomi facevano riferimento al nome proprio di un capostipite generazionale, come: Pierovi da Pietro, Blasìcevi, da Biagio, Marchìcevi da Marco, Antuògnovi da Antonio, Rocchìcevi da Rocco, Roccovi da altro Rocco, Costantìgnevi da Costante, Eujègnovi da Eugenio e così via. Coll'aumentare della popolazione e la ulteriore proliferazione sempre degli stessi nomi, è stato necessario passare ad altri riferimenti come: Zìzzericevi da cicerchia, Bòbari da bob (fava), Barbarossovi da barba rossa, ecc.

In molti casi, a partire dal 1920, i soprannomi sono stati trasformati in nuovi veri e propri cognomi. I principali soprannomi di Neresine sono elencati nell'allegata appendice "A".

I mezzi di trasporto.

Vale la pena di parlare dei mezzi di trasporto utilizzati in paese per la loro tipicità. Il più importante e diffuso era la piccola barca, il cosiddetto caìcio (caìch), nome comunemente usato nella zona costiera del versante orientale dell'Adriatico, fino alla Turchia, per definire questo tipo di imbarcazione. Il caìcio di Neresine era ed è una robusta barca in legno a poppa quadra, abbastanza larga, di lunghezza variabile da 4,5 fino a 6 e più metri, particolarmente adatta per la navigazione a vela, prevalentemente dotata di scafo, ossia una specie di coperta che copre circa la metà anteriore della barca. Oltre ai caìci c'erano anche le batele, barche leggere molto maneggevoli, utilizzate prevalentemente per la pesca. Le batele erano barche a fondo piatto, di lunghezza variabile attorno ai quattro metri, senza coperta, adatte per la navigazione a remi, molto probabilmente derivanti dalle analoghe barche della laguna veneta, aventi lo stesso nome.

Data la natura impervia delle isole del Quarnero e la conseguente difficoltà di costruire strade, la barca era diventata il principale mezzo di trasporto, particolarmente per gli abitanti di Neresine e di S. Giacomo. Infatti, tutte le terre della parte sud dell'isola di Cherso, la cosiddetta Bora, erano diventate di loro proprietà, quindi per attraversare lo spazio di mare che divide le due isole, il Canal (Conual), con un percorso da uno a tre-quattro miglia, a seconda del punto dove si doveva approdare, era gioco forza utilizzare la barca, conseguentemente quasi ogni famiglia ne aveva una propria.

[61] Il mare chiuso e poco ondoso del Canal, perché protetto da tre lati e le caratteristiche di buona ventosità dell'area, avevano facilitato la diffusione della vela quale mezzo di propulsione, di cui tutti gli abitanti erano diventati esperti utilizzatori.

L'uso intensivo delle barche ha portato all'esigenza di trovare un posto sicuro dove ormeggiarle, sono quindi stati costruiti dai Neresinotti, con un lavoro enorme, tanti porticcioli e moli di ormeggio un po' ovunque.

Nel paese sono stati costruiti i porticcioli dei Frati, di Biscupia e di Ridimutac per gli abitanti di Halmaz. Ridimutac (fango ridente) era una bellissima insenatura sovrastata da alto bosco, a fondale in parte sabbioso ed in parte fangoso, in cui sfociava una sotterranea sorgente d'acqua dolce. In questi porticcioli ciascuna barca aveva il proprio individuale ormeggio, con regolare corpomorto fisso e relativo gavitello. Gli ormeggi venivano tramandati, come una proprietà privata, di generazione in generazione nelle stesse famiglie. Oltre ai porticcioli in paese, sono stati costruiti moli di attracco e ormeggi sicuri in tutti gli approdi di Bora, da quelli in Pod Brùaide (baia sud di Ossero), Podolzì, Mociuàvni (baia di Sonte), Sonte, Scoìc, Stenìzze, Pinzinića mul, Draga, Rìduie, Sesnúa, Maiescúa, con annessa casetta per ripararsi dalla pioggia in caso di temporale (neviera), Caldonta, Martinsćiza, Galbociza, Biela Vala, fino a Puntacroce e oltre. Anche i Sangiacomini hanno dato il loro contributo nella costruzione dei vari approdi per le barche, sono nati così i porticcioli di S. Giacomo, Lanena, e moli di attracco in Buciagne, Veli Buok, Lucizza, ecc.

Nei caìci venivano anche trasportate da una sponda all'altra le pecore e perfino gli asini ed i muli. Lo scafo dei caìci era particolarmente adatto per far salire con facilità le pecore a bordo e poi alloggiarle sotto lo stesso scafo durante la navigazione, particolarmente utile quando per vento più intenso la barca navigava inclinata su un fianco sotto la spinta della vela.

Altri mezzi di trasporto importanti erano il mulo e l'asino (tovuár); va precisato che nel dialetto italiano del paese il mulo era chiamato cavalo e in quello slavo cuógn (appunto ancora cavallo); tutti i trasporti terrestri venivano fatti a dorso di questi utili animali, quindi anche le varie attrezzature per il trasporto dei materiali erano costruite in funzione di questo tipo di vettore. Quello principale era il basto o crosgna, su cui si caricavano legna, frasche, pecore ed agnelli, ed ogni altro tipo di mercanzia di consistenza solida, ed era anche adatto per fare stare agevolmente seduto l'uomo in groppa. Sui basti venivano applicati anche particolari accessori, come le cuònche o conche, dei contenitori fatti a cassone, col fondo apribile per scaricare in terra il loro contenuto, opportunamente sagomati per adattarsi all'anatomia dell'animale: erano usati per il trasporto di materiale alla rinfusa come letame, pietre, sabbia, terra, calce viva, ecc. Per il trasporto di liquidi, specialmente acqua e vino, erano usate le batalúghe, piccole botti di legno a sezione ellittica, di circa venti o trenta litri di capacità, adatte per essere caricate sui basti dell'asino o del mulo. Per i liquidi veniva anche utilizzato il ludro o mieh, otre ricavato dalla pelle della capra o pecora. Il ludro era uno dei contenitori tradizionali per il trasporto dell'uva raccolta durante la vendemmia.

Gli animali da soma erano intensamente utilizzati per il trasporto di legname, dai boschi di taglio, posti anche al centro dell'isola, fino al mare, dove veniva imbarcato sui motovelieri da carico del paese. Quest'attività si chiamava sumisár o in dialetto slavo gonìt. Il legname da ardere era chiamato ifassi, ossia dei pezzi di rami tagliati di lumghezza standard di circa un metro e diametro da 3 fino a 5 - 6 centimetri, mentre quello di dimensioni piu grosse era chiamato i mureli. Il legname veniva poi accatastato in uno spiazzo, preventivamente preparato, in riva al mare, nell'attesa di essere imbarcato. I posti prescelti per la caricazione non sempre erano adatti per l'attracco delle navi, anzi quasi mai, per motivi di basso fondale o secche rocciose particolarmente pericolose, quindi inaccessibili dal mare per i grossi bastimenti. I posti d'imbarco del legname aventi queste caratteristiche, erano chiamati ghet (da ghetto, luogo chiuso, inaccessibile). Per caricare il legname nel ghet, era quindi stata escogitata una particolare tecnica: la nave veniva saldamente ormeggiata in fondale sicuro, con ancore a prua e poppa e cime a terra, ma distante da riva, a volte anche più di 50 metri, poi venivano messi dei lunghi ponti per raggiungere terra, ossia delle grosse tavole di legno, lunghe circa 15 metri, larghe circa 40 centimetri e spesse 5-6 centimetri. Quando la distanza da terra [62] superava la lunghezza della tavola (ponte), si faceva un ponte di barche, con una o due caici che fungevano da piloni. I fassi venivano accatastati su uno smurìch e direttamente pesati a terra sul dezimàl (grossa bilancia), quindi portati in spalla a bordo dai caricatori, quasi sempre gli stessi marinai di equipaggio della nave, costretti a camminare veloci sul flessibilissimo ponte, il che richiedeva da parte dei portatori anche il possesso di alte doti equilibristiche. L'unità di misura di ogni smurìch di fassi era la mièra (misura), ossia circa 50 chili. La contabilità del legname caricato era effettuata da due persone contemporaneamente, una per conto del proprietario del legname e una per conto dell'armatore della nave. Ogni mièra era marcata con una barretta verticale su un apposito quaderno, ogni quattro barrette verticali erano sbarrate con una quinta trasversale al grido di "sbarra", quindi ogni gruppo di barrette sbarrate corrispondeva a cinque mière, alla fine del carico si contavano le sbarre e quindi la quantità di legname imbarcato. Tra le vecchie carte ritrovate ci sono delle ricevute di imbarco di legname per oltre 3000 mière di fassi, riguardanti alcuni proprietari. Un altro mezzo di trasporto importante era il caro coi manzi (carro trainato dai buoi). Il carro di Neresine era del tipo a quattro ruote, molto lungo e stretto, atto per passare nei clanzì (singolare clanaz), le tipiche strette strade di campagna delimitate da entrambi i lati da masiere, e per percorrere gli stretti ed impervi sentieri lungo i boschi dell'isola; era molto pesante e robusto, costruito con grosse travi di legno e alte sponde laterali, formate da barre di legno di ginepro, atte per contenere i carichi più voluminosi. Il carro veniva adoperato per i trasporti a lunga distanza, specialmente del legname, dai boschi di taglio fino ai posti di imbarco in riva al mare, ed aveva una portata anche superiore ai dieci quintali. Nei periodi di lunga siccità estiva, il carro veniva usato per portare l'acqua potabile alle pecore nelle varie campagnre di Bora, prelevandola dai pozzi di Ossero e addirittura dal pozzo in piazza a Neresine, con percorsi a volte anche superiori a 15 chilometri. Nei tempi più antichi il carro era l'unico mezzo di trasporto terrestre di grandi partite di merci tra i vari paesi delle isole, non era infrequente la necessità di viaggi a Cherso, ad oltre 50 chilometri di distanza ed a Lussino (20 chilometri). I carri erano posseduti tuttavia solo dalle poche famiglie dei grandi proprietari terrieri, perché richiedevano anche il possesso di due robusti manzi (buoi) per il loro trascinamento, quindi esistevano solo tre o quattro carri, che comunque coprivano le necessità del grande trasporto per tutto il paese. Le famiglie che possedevano i carri e relativi buoi, erano: i Gaetagnevi (Bracco), i Casteluagnevi (Soccolich-Castellani), i Maurovich de Cluarich ed i Menisićevi (Zorovich-Menesini).

Tra i mezzi di trasporto vanno ricordate anche le civiéra. Erano delle portantine di legno di ginepro, sagomate in modo da essere trasportate da due persone, una davanti e l'altra di dietro, con cui venivano effettuati i trasporti pesanti a mano di breve distanza.

La copàniza era un contenitore di grandi dimensioni di forma rettangolare svasata, costruito con tavole di legno, avente, come le civiéra, quattro impugnature per il trasporto con due persone. Le copànize erano anche adoperate per fare il pane (come madie) e per il lavaggio e pulitura del maiale, quando veniva ammazzato (copado), prima della macellazione. Lo smurìch (non ha termine in italiano, forse conca?) già menzionato, come lo smur precedentemente visto, era un contenitore leggero, rettangolare a fondo arrotondato, ricavato scavando un mezzo tronco d'albero, adatto ad essere portato a spalla dagli uomini o sulla testa dalle donne. (Quando verso la fine del XIX secolo i frati croati avevano abolito la lingua latina ed italiana in alcune cerimonie religiose, gli abitanti di Neresine che non avevano accettato la cosa, portavano a battezzare a Ossero i neonati, accomodandoli proprio nello smurìch, portato in equilibrio sulla testa dalle donne).

Altri contenitori tradizionali erano i cossìći e le còfe. I cossìći erano dei robusti cesti di vimini, costruiti artigianalmente in casa, dotati di una rigida maniglia di legno (proveslò) di frassino, opportunamente sagomata, ed erano di varie dimensioni; quelli più grandi erano utilizzati per la raccolta delle olive, dell'uva durante la vendemmia, per la raccolta dei fichi, ecc., quelli più piccoli per tutti gli usi possibili. Un antico proverbio molto usato diceva: "ne hfalìse cossìće da ima novo proveslìće" (non decantare il cesto se ha la maniglia nuova), per dire che non basta sostituire una piccola parte ad un pezzo vecchio, per averne uno completamente nuovo. Le cofe (ceste) erano invece delle grandi ceste di vimini, più leggere dei cossìći, di forma ovale, dotate anch'esse di robusta maniglia [63] di vimini intrecciati e di due coperchi superiori, incernierati sulla trasversale della maniglia. Le cofe erano generalmente utilizzate per la conservazione del pane o altri generi alimentari che richiedevano una certa aerazione.

La pesca.

Nella vita di Neresine la pesca è certamente un argomento degno da essere ricordato perché il mare circostante era pescosissimo e perché il pesce è stato, per lo meno dalla fine del XVIII secolo in poi, un importante mezzo di sostentamento per la popolazione, specialmente nei periodi di maggiore siccità e quindi di carenza alimentare.

Comunque, contrariamente agli abitanti dei paesi di Ossero, Lussingrande e di Cherso, tra i quali la professione del pescatore era abbastanza diffusa, a Neresine non ci sono mai stati veri e propri pescatori professionisti, ciò è probabilmente dovuto al fatto che la grande pescosità del mare prospicente il paese consentiva ad ognuno di provvedere direttamente, ad a "tempo perso" al fabbisogno proprio, del parentado ed anche del vicinato; non solo, ma certamente anche l'attività marittima commerciale a cui il paese si è sempre intensamente dedicato, ha indirizzaro la popolazione verso la professione del marinaio, assai più remunerativa, piuttosto che a quella del pescatore. Addirittura nei pregiudizi del sentire popolare paesano, il pescatore de mestier era diventato sinonimo di persona pigra (trisćeni), perdigiorno, uomo con poca voglia di lavorare.

Tornando alla pesca vera e propria, nel periodo invernale la pesca prevalente era quella dei calamari (ligne) e delle seppie (sippe), generalmente effettuata dai ragazzi, che provvedevano al fabbisogno dei famigliari e del vicinato. c'è un vecchio adagio in dialetto slavo che a proposito della pesca delle seppie dice: "februaj sippe na cruàj, muàrća odavuànza, avrilapreco rila, maja na capìtul", ossia: febbraio le seppie a terra, marzo ce n'è d'avanzo, aprile fino alla nausea, maggio tutto finito. Si racconta ancora oggi che in primavera, durante la stagione della mungitura delle pecore, c'erano delle donne, cinque o sei, che andavano a mungere le pecore nella campagna circostante la baia di Sonte, di fronte al paese. Si erano ben organizzate e con una grossa batela, (quella del Iviza), a remi se ne andavano tutti i giorni su e giù per il canale per effettuare la mungitura. Arrivate sul molo (mulìch) di Sonte, ormeggiavano la batela e ognuna per proprio conto se ne andava verso la propria campagna a radunar (vagnát) le pecore, poi ritornavano con le "latte " in testa piene di latte verso la barca. Quelle che ritornavano per prime, mentre aspettavano le altre, "raccoglievano" seppie con le mani nel basso fondale, dove i molluschi si raggruppavano per la riproduzione e poi ritornavano a casa col latte e con le seppie: da mangiare per tutti.

Le seppie ed i polpi (cobuòdnize) venivano anche pescati con delle grosse nasse (varse) di vimini, che, mentre si andava su e giù per il canale per recarsi a Bora per lavoro, si lasciavano cadere qua e là sul fondo del mare, per poi al ritorno ritirarle su, per mezzo del dracmarìć (rampino), piene di molluschi. Non avendo in quei tempi né frigoriferi, né un mercato dove venderle, si salavano un po' (sia seppie che polpi) e si facevano seccare al sole, per poi mangiarle d'inverno. In quel tempo, durante la stagione della pesca delle seppie i moli dei vari porticcioli del paese erano sempre tutti anneriti dall'inchiostro dei molluschi pescati.

Un'altra pesca tipica del periodo primaverile era quella dei granzi (le squisite granzievole), si pescavano prevalentemente nella baia di Ossero, ce n'era una tale abbondanza che quelli che li pescavano stentavano a venderli, così per riuscire a smaltirne qualcuno di più, escogitarono il sistema di cuocerli in grossi barili di lamiera e venderli nella piazza del paese già cotti. Durante l'estate era abbondante e facile la pesca degli sgombri: mentre si andava con la barca a vela a Bora per lavoro, si filava a mare la lenza a traino (pànola), usando come esca un pezzetto di stoffa bianca, e nel breve percorso si riusciva a pescare il fabbisogno della famiglia. Una attività di pesca molto praticata, perché anche divertente, era quella di luminar (svetìt) col pétromas (dal nome del marchio di fabbrica dell'attrezzo) a petrolio (la lampara) e le fiocina, si faceva tutto l'anno, nelle notti di bonaccia e senza luna. Si installava sulla prua di una batela il pétromas acceso, e vogando silenziosamente si perlustrava il fondale lungo la costa a tre o quattro metri di profondità, fiocinando tutti i grossi pesci che si incontravano, fermi e abbagliati dall'improvvisa [64] intensa luce. Questa era una pesca molto proficua perché si prendevano grossi pesci pregiati come, orate (podlànize), branzini, scarpène, fruànculi (saraghi S. Andrea), pizzi (saraghi pizzuti), serghi (saraghi reali), cavai (corvine), ecc.

I ragazzi, specialmente nei tempi più antichi, andavano a luminar da terra camminando sugli scogli (cràjen muora), utilizzando come fonte luminosa un ramo di ginepro (smreca) ardente e la sabra, ossia una specie di spada con sulla punta un uncino. Quando si scorgevano, nei piccoli specchi d'acqua tra gli scogli, dei cefali (ćifli), si dava una sciabolata nell'acqua ritirando contemporaneamente verso sé la sabra, nel cui uncino rimanevano agganciati i pesci. Successivamente, con l'evento delle nuove tecnologie, il ramo di ginepro ardente fu sostituito da una lampada "a carburo" e la sabra con una piccola e molto acuminata fiocina. In questo modo, oltre ai cefali si prendevano anche gli squisitissimi granchi garmaì e qualche belfolpo, che di notte andava anche lui a caccia di granchi tra gli scogli.

Vale la pena di raccontare anche la pesca con la ságoniza (da pronunciarsi con la esse dolce di rosa). Questo tipo di pesca veniva fatto nella buona stagione: si partiva la mattina di buon'ora con due o tre barche ed una diecina di uomini. Si sceglieva una opportuna baia, possibilmente sabbiosa, poi si calava, a tre o quattrocento metri a largo della baia prescelta, una corda lunga anche oltre 1000 metri, opportunamente zavorrata in modo che andasse sul fondo, su cui venivano intrecciati ogni cinque o sei metri dei gruppi di foglie secche di pannocchie di granoturco, con l'intenzione con queste di spaventare i pesci. Nella stessa corda venivano legati ogni trenta o quaranta metri delle sagole alla cui estremità si fissava un gavitello galleggiante. Poi si calava sul basso fondale vicino alla spiaggia, in un posto opportunamente prescelto, una grande rete distesa sul fondo e gli uomini da terra incominciavano a tirare la corda, prima da una estremità e poi dall'altra, con l'intenzione di riportare a riva la corda e tutto il pesce che si venisse a trovare all'interno. Il capopesca da una barca al largo sorvegliava il funzionamento della corda impartendo ordini a voce a quelli di terra. Quando quelli di terra si accorgevano che la corda faceva molta resistenza al loro tiro, davano segnalazione al capopesca che provvedeva a salpare ad una ad una le sagole con i gavitelli, finché non trovava il punto in cui la corda si era incocciata in qualche grotta e poi la liberava, così il tiro riprendeva. L'operazione durava parecchie ore prima che tutta la corda fosse salpata. Alla fine quando l'ultimo pezzo di corda era arrivato nella rete precedentemente predisposta, si tiravano su i lembi della rete con tutto il pesce dentro. Con questo tipo di pesca si riusciva a raccogliere anche qualche quintale di pesce pregiato.

Al ritorno in porto si faceva l'operazione della spartizione del pescato, ed era una vera e propria cerimonia a cui assistevano tutti i ragazzini del paese, e non solo loro. Nel cortile della casa del capopesca o sul molo del porto si facevano in cerchio tanti mucchi di pesce quante erano le parti in cui si doveva dividere il pescato. Spettava una parte ad ogni uomo, una a ogni barca ed una o più al proprietario delle attrezzature. Poi tutti gli uomini si mettevano in cerchio e col rituale del bim, bum, bam buttavano dei numeri con le dita e facevano la conta, il primo estratto prendeva il mucchio di pesce più ricco, precedentemente definito e gli altri seguivano in ordine di estrazione della conta. Nel periodo invernale molti pesci rientravano nei bassi fondali delle baie del canal per la riproduzione, quindi gli appassionati di pesca più esperti seguivano queste migrazioni per poi al momento giusto calare le reti e fare serajo (serraglio), cioè chiudere il pesce, di solito orate e volpine o muiéle (muggini). Molte volte i seraj fruttavano diecine di quintali di pesce, il problema però era come smaltire il pescato, in paese non si poteva vendere un granché, perché molti provvedevano da soli al proprio fabbisogno. Fuori paese, senza mezzi di trasporto regolari e senza infrastrutture adeguate era altrettanto difficile trovare un mercato, quindi spesso si lasciavano per molte settimane i pesci chiusi nei bassi fondali come se fosse un allevamento. Il pescatore lasciava che i compaesani andassero con le loro barche dentro al serajo a prendere con le fiocine quello che a mano a mano serviva per le famiglie, dietro il pagamento forfetario di un pedaggio, finché tutto il pesce veniva smaltito. Un altro tipo di pesca abbastanza importante e molto praticato, era la trata, cioè la pesca delle sardelle e delle alici (inciò), e degli sgombri, che si faceva generalmente in primavera, di notte, possibilmente in assenza di luna, con la lampara e vaste reti di superficie. [65]

La pesca delle sardelle con le "tratte" nel mare circostante le isole, è molto antica ed è stata regolamentata fin dal XVII secolo da precise disposizioni, che definivano le "poste" in cui calare le reti, i criteri di assegnazione ai vari pescatori delle "poste" stesse ed il tributo che ciascun titolare di "posta" doveva versare come diritto di sfruttamento.1 Le "poste" erano assegnate annualmente per sorteggio, che anticamente era effettuato il giorno della ricorrenza di S. Marco (25 Aprile). Prima che fosse introdotto il petromas, ossia la lampara a petrolio, l'illuminazione del mare per attirare i pesci, era realizzata con grandi fuochi, ottenuti bruciando rami di ginepro su un apposito telaio di ferro, posto sporgente sulla prua delle barche.

I pescatori di Neresine praticavano questo tipo di pesca, abbastanza occasionale, fora Ossero, ossia a largo della baia di Ossero,2 reclutando il personale con gli stessi criteri di quelli già descritti per la pesca con la ságoniza.

Le sardelle e le alici erano abbastanza richieste perché era usanza in tutte le famiglie conservare sotto sale questo pesce, generalmente si usavano dei contenitori di legno, come dei mastelli o baie, entro cui si stivavano in bel ordine i pesci: uno strato di pesce ed uno di sale e così via fino al riempimento del contenitore. Poi si pressava il tutto con una grossa pietra e si lasciava stagionare per qualche mese, infine le squisite sardelle o alici salate erano pronte da mangiare, generalmente condite con olio e aceto e accompagnate con passaméte e un buon bicchiere di vino.

Tra i tipi di pesca più comuni va anche ricordata quella con le reti: i tremagli (tramaćiuàne), piccole reti da fondo con cui si pescavano triglie (tarjize), scarpéne (capponi), scorfani (scarpocì), bisibabe, sanpieri, granzi e ogni altro tipo di pesce da fondo; queste reti venivano generalmente utilizzate per la raccolta del pesce per uso famigliare. c'erano anche le postizze, reti alte, più adatte per prendere pesci pelagici come sgombri, suvri, bobe e muòdraszi; queste reti richiedevano una gestione più impegnativa e professionale, quindi utilizzate dai pochi pescatori semi professionisti. Infine la pesca praticata da quasi tutti i ragazzi del paese, ossia quella con la togna (lenza) e il palangar (palamiti), che comunque dava buoni frutti con poca fatica.

L'allevamento del bestiame.

Quando si parla di allevamento di bestiame riferito a Neresine, si deve parlar prima di tutto di pecore (òfze). Fin dalle origini del paese, l'allevamento delle pecore è stato la principale è più importante attività della popolazione. Da questa fonte si ricavavano i fondamentali mezzi di sostentamento come la carne, il formaggio e la lana. Ogni famiglia possedeva almeno il numero di pecore necessarie per il proprio fabbisogno. Naturalmente l'allevamento richiedeva anche il possesso della quantità di terreno da pascolo occorrente per lo scopo, perché esse venivano allevate allo stato libero, rinchiuse in aree di campagna a macchia mediterranea, preventivamente pulite e adattate per il pascolo, denominate logo o miesto. I loghi o miesti erano tutti identificati con un loro specifico nome e erano accuratamente recintati da masiere o gromáce, muri a secco alti, in certi casi fino e oltre i due metri, in cui le pecore vivevano autonomamente tutto l'anno. Per facilitarne la cattura e per evitare che saltassero oltre le masiere, alle pecore venivano legate due gambe tra di loro, di solito una anteriore ed una posteriore dallo stesso lato, con una particolare corda intrecciata "a treccia" di lunghezza di circa 20 - 25 centimetri chiamata sbalza o spona; quando qualche pecora era particolarmente riottosa (di solito una "capopecora"), si ricorreva alla legatura incrociata, ossia una gamba anteriore da un lato e quella posteriore dall'altro, se poi la cosa non bastava, si faceva la legatura con due spone incrociate fintanto che la pecora non "metteva giudizio". Tendenzialmente si cercava di selezionare per la riproduzione e la mungiura le pecore più docili (crotke), in modo da avere meno problemi per la gestione dei greggi e la mungitura quotidiana. Le pecore erano divise in due categorie: quelle che facevano gli agnelli e che poi erano destinate alla mungitura del latte, chiamate bree quando erano incinte e malsìzze quando davano il latte, e quelle sterili o non adatte alla mungitura chiamate jállove. Le pecore jállove ed i montoni (pruàs, plurale pruàsi) di solito erano tenuti in loghi separati dalle altre. [66]

Poiché la stagione ideale per la nascita degli agnelli e la successiva mungitura era, per maggiore ricchezza di erba e per migliori condizioni climatiche, la primavera, il periodo della riproduzione veniva programmato in maniera da far coincidere in modo ottimale i vari eventi, quindi i montoni venivano introdotti nei loghi dove stavano le pecore fertili nel periodo opportunamente calcolato; sorgeva tuttavia un problema, i montoni con le spone ai "piedi" avevano difficoltà a fare "il loro dovere", quindi era stato escogitato un altro espediente: il clatò. Il clatò era un attrezzo di legno di frassino (jéssen) lungo circa 30-40 centimetri, opportunamente sagomato e piegato a "u", in modo da poter essere infilato e legato alla gamba del montone, in questo modo gli veniva impedito di correre velocemente e saltare le masiere, ma veniva lasciato libero di effettuare i movimenti fondamentali per la riproduzione. Anche in questo caso, a seconda della docilità e robustezza del montone, venivano utilizzati uno o più clatò, conseguentemente non era insolito udire in certi periodi dell'anno, il tipico rumore dello sbattimento dei legni contro le rocce, proveniente dalla campagna. La stagione della mungitura e quindi della produzione del formaggio andava da aprile a giugno ed anche oltre. La mungitura veniva fatta di solito dalle donne, chiamate sàlarize, due volte al giorno, alla mattina presto ed alla sera; esse andavano nel logo dove stavano le pecore e da una estremità, di solito quella più alta, cominciavano a radunare (vag'nát) le pecore con gridi e richiami (na, na, male naaa…), spingendole verso il basso, dove si trovava il margarìch, una specie di ovile lungo e stretto, spesso coperto con tetto di tegole per ripararsi da eventuale pioggia. Quando le pecore erano tutte entrate nel margarìch, le donne iniziavano a mungerle ad una ad una, sedute in un caratteristico e rudimentale sgabello a tre gambe (stuòlcich).

Per fare un formaggio al giorno di circa due chili occorrevano da dodici a quattordici pecore. Il formaggio veniva fatto la mattina, al ritorno dalla mungitura: si metteva il latte della sera prima e quello appena munto in un grossa pentola, si versava il caglio, la pentola veniva posta sul fuoco del fogoler (ug'gnìsće) sistemata sulle trepìe (tripode) e si aspettava l'indurimento della massa di latte, poi la cagliata veniva frantumata con un mestolo speciale (clatacìć), fatto con un ramo di ginepro, alla cui estremità venivano lasciati quattro o cinque moncherini dei rami più piccoli, una specie di mestolo frullatore. Quando la massa era tutta sbriciolata, la donna cominciava con le mani a raccogliere lentamente i frammenti e ad impastarli spremendoli con le mani per eliminare la parte liquida. La temperatura del miscuglio era mantenuta attorno ai 35 - 40 gradi governando il fuoco. L'operazione di spremitura durava circa un'ora, poi il formaggio veniva messo nella setìzza (da pronunciare con la esse dolce), una forma di legno che veniva poi riposta, con sopra una pesante pietra, per continuare la spremitura. Il siero liquido residuo, la presćnìzza, era filtrato con un panno bianco in cui si formava la squisita ricotta (puìna o scutta), mentre l'ultimo liquido di scarto, la usámniza, veniva utilizzata per l'alimentazione del maiale di casa. Dopo qualche giorno il formaggio era tolto dalla forma e messo a stagionare nelle apposite staluásize (grigliati di legno), in un posto ben arieggiato, spesso nella cappa del camino del fogoler, dove riceveva anche una leggera e gradevole affumicatura.

Nelle case più antiche ed anche in alcune di quelle in mezzo ai boschi delle stanze di Bora, le cucine erano costruite in funzione della produzione e stagionatura del formaggio e dei prosciutti, ossia avevano un grande fogoler al cento e l'alto soffitto del locale era fatto a forma di cupola o tronco conico da cui centralmente si dipartiva il camino; in sostanza l'intero soffitto della cucina fungeva da grande cappa, ed era attraversata da delle travi di legno o di ferro orizzontali, su cui erano fissati i grigliati per la stagionatura ed affumicatura del formaggio e dei prosciutti. (Lo scenario della grande cucina della stanza di mio nonno in Garmosaj, con le staluáse del soffitto piene di profumati formaggi, e con prosciutti, salsicce e ciriève appese alle travi a formare allegri ed appetitosi festoni, è rimasto indelebile nella mia memoria).

Tornando al formaggio, quando veniva tolto dalla setìzza, presentava degli sfridi lungo la circonferenza delle due basi rotonde della forma cilindrica, gli sfridi tagliati erano chiamati uresi (ritagli) (la esse va pronunciata aspra) ed erano la prelibatezza più ambita per i bimbi di casa. Inutile dire che il formaggio era di una bontà indescrivibile, inimitabile, sapori purtroppo anche questi perduti per sempre. [67]

Come il formaggio, evidentemente anche la ricotta veniva prodotta in grande quantità, ma ben poca se ne poteva consumare tal quale, essa veniva quindi sottoposta ad una ulteriore lavorazione, ossia un energico sbattimento (tàppat) in appositi attrezzi, una specie di lungo tubo costruito in doghe di legno (tàppalo), come la setìzza, in cui, attraverso il coperchio forato ed un particolare stantuffo, veniva energicamente sbattuta, separando ulteriormente il liquido sieroso (usàmniza), ricavando come prodotto finale il meraviglioso burro, che veniva in gran parte venduto fuori paese, specialmente a Lussino. Oltre al burro, con la ricotta si faceva anche il butìro, ossia si cuocevano le ricotte in una grossa pentola, in modo da far evaporare l'acqua in esse contenuta, quindi si raccoglieva il grasso residuo liquefatto, per poi conservarlo, in grossi bozoni (vasi di vetro) con tappo smerigliato a tenuta ermetica, per consumarlo durante l'inverno in sostituzione del burro vero e proprio. Anche la lana (vàlna) era un importante prodotto ricavato dalle pecore. Dopo la tosatura la lana veniva lavata, cardata (cardatura grezza = grabunàt; cardatura fine = grabusàt) e filata (prìest) coi veloci mulineri (mulinier) a manovella manuale, il prodotto finito era un bel filo di lana, (utác), un po' grezzo ma ottimo per fare coperte, calze, maglioni, berretti, ecc. Con la lana venivano anche fatti ottimi materassi e cuscini che trovavano ampio mercato fuori paese. Alcune famiglie, fin dal lontano XVII secolo, si erano dotate di telaio per la tessitura della lana, chiamato nel dialetto italiano del paese telér ed in quello slavo càlize, o più scherzosamente crosgne, con cui venivano prodotte pregiate coperte (racnò) e un bel tessuto di lana, che veniva venduto anche negli altri paesi delle isole. Oltre alle pecore, quasi ogni famiglia allevava anche un maiale (prassàz) per le carni e gli ottimi prosciutti ed almeno una capra (cosà) per il latte, perché quello delle pecore era destinato interamente per la produzione del formaggio.

Diversamente dalla pecora, la capra era allevata esclusivamente per la produzione del latte necessario all'alimentazione della famiglia, ed era tenuta come animale domestico, alloggiata nel cotàz (piccolo recinto con annessa casetta) vicino casa; essa veniva alimentata prevalentemente con le giovani foglie degli alberi, come ciarnìca (elice), planìca (corbezzolo), drien, foglie di verza, ecc. e nella bella stagione veniva portata nei prati e orti a brucare l'erba, legata con una leggera catena in modo che non potesse allontanarsi e fare "danni" negli orti dei vicini. Per legare la capra era utilizzato l’òbruch, un collare di frassino oppotrunamente piegato a "u", dotato di un ingegnoso chiavistello di legno. Le donne avevano anche l'onere di andare due o tre volte la settimana in campagna "po briènze", ossia a raccogliere un grande fascio di frasche di rami di alberi ricchi di giovani foglie, per alimentare la capra di casa. Era consuetudine incontrare la sera le donne che ritornavano dalla campagna con un enorme fascio di frasche, portato in equilibrio sulla testa, con interposto il coluàch (una particolare ciambella di stoffa imbottita da appoggiare sulla testa); le frasche, una volta ripulite delle foglie dalla capra, erano poi utilizzate per alimentare il fuoco del forno di casa per la cottura del pane.

Poiché le capre erano tenute nel cotàz vicino casa, e pressoché ogni famiglia ne possedeva una, per avere una buona produzione di latte, era necessario garantire la riproduzione annuale di questi utili e simpatici animali, ma le famiglie non potevano per questo scopo tenere anche il caprone (parch), quindi alcuni cittadini si erano organizzati allevando un robusto esemplare di caprone, in grado di coprire il fabbisogno riproduttivo delle capre di tutto il paese. Di solito in paese erano disponibili uno o due caproni, quindi per usufruire delle loro "prestazioni", bisognava portare la capra di casa nell'apposito recinto in cui era tenuto il maschio, nel periodo dell'anno opportunamente programmato. Le capre venivano portate la sera presso il caprone, di solito cinque o sei alla volta, dove trascorrevano la notte. Le prestazioni riproduttive venivano poi pagate al padrone del parch in base ad una tariffa preventivamente concordata. Purtroppo i caproni in questo periodo emanavano anche un caratteristico ed insopportabile fetore, che sarà anche stato gradito alle capre e quindi utile per stimolare il loro istinto riproduttivo, ma ammorbava l'aria per parecchie diecine di metri tutt'intorno, rendendo sgradevole la permanenza degli umani nelle vicinanze del recinto. È facile immaginare come la curiosità morbosa dei ragazzini del paese trovava il suo apice nel periodo riproduttivo delle capre, quindi non era insolito incontrarne alcuni la sera, malgrado l'intenso fetore, mentre si aggiravano circospetti nei pressi dell'harem caprino.3 [68]

A proposito delle capre, va anche detto che per alcuni anni, tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, il governo austriaco, con l'intento di preservare la vegetazione dell'isola, proibì l'allevamento della capre; la legge, del tutto demenziale, che ignorava le vitali esigenze della popolazione, provocò problemi sanitari per malnutrizione a molti bambini del paese, come detto più estesamente in altra parte.

A seguito della citata legge di "messa al bando" delle capre, in paese alcune famiglie si dedicarono all'allevamento delle mucche (crave), proprio per fornire il latte necessario a tutti gli abitanti del paese; anche in questo caso quelli che si attrezzarono per l'allevamento di questi animali, furono le solite famiglie dei grandi proprietari terrieri, ossia i Gaetagnevi (Bracco), i Casteluagnevi (Soccolich-Castellani), i Menisićevi (Zorovich-Menesini) ed i Cravići (Bracco), che avevano i mezzi economici per allestire le stalle richieste per questo tipo di attività. Le stesse famiglie, oltre alle mucche, allevavano i manzi (buoi) necessari per il trascinamento dei carri, ma soprattutto per i lavori di aratura dei grandi gorghi (tiesi) e dei vari campi esistenti in tutta la campagna del circondario. [69]


Note:

1. La pesca delle sardelle e alici con le reti chiamate "tratte", secondo il Dott. Matteo Niccolich, autore nel 1871 della "Storia documentata dei Lussini", fu introdotta nelle isole nel 1640 dai pescatori di Lussingrande Botterini e Ragusin; infatti, da documenti rinvenuti negli archivi di Ossero, risulta che il Conte e Capitano di Cherso ed Ossero Lorenzo Barbaro, governatore delle isole per conto della Serenissima, in una relazione del 9 luglio 1749, elencava tra le varie attività di interesse strategico per la "Dominante", anche venti "tratte" per la pesca delle sardelle.

2. L'individuazione delle "poste" per la pesca delle sardelle e la loro regolamentazione, era ben disciplinata e controllata dalle autorità comunali responsabili per territorio. Poiché a qualcuno potrebbe interessare, viene riportato un documento ritrovato, concernente l'individuazione delle "poste" nella baia di Ossero, la loro regolamentazione e l'assegnazione ai vari pescatori di Neresine e di Ossero nel 1940.

ELENCO DELLE POSTE DELLE SARDELLE (Comprese direzioni

ì distanze necessarie per calare le reti).

Nome posta Direzione passi Assegnatario
1 Tonera Muro S. Caterina 29 Manini (Rucconich-Zimić)
2 Radiboi di dentro Dentro Radiboi rovescia 30 Berna
3 Presa Puntal di maistro 28 Moro
4 Abisso grosso Puntal di maistro 50 Mauro
5 Puntal de maistro Chiesa S. Piero 40 Zoroni
6 Valle grande - 35 Bonifacio Gaudenzio
7 Bocić Gromaciza 28 Vodari Gasparo
8 Barsian Puntal de maistro 35 Ballancin
9 Abisso - 40 Boni Francesco (Frane Bonich)
10 Palandara Boch Campanil de Ossero 20 Vodari Zacaria
11 Arno Prepovet de siroco - 50 Zulini Stefano
12 Canon Puntal tonera ponente 35 Salata Francesco
13 Artina Bocić 28 Bracco Antonio (Merco)
14 Radiboi di mezzo - 35 Rucconi Giuseppe
15 Mezzo bocić Feralić 35 Boni Antonio fu Giovanni (postoluar)
16 Arno Boch Tanchi 35 Zullini Domenico
17 Balligo Bora Vier 35 Burburan Antonio figlio
18 Feral - 100 Bracco Domenico
19 Puntal de Masova Calchiera zoccolo 35 Maver Domenico
20 Cancelleria de maistro Breca 22 Muscardin
21 Valle Piccola - 35 Travas Giovanni
22 Santa Caterina Punta Levrera di bora 35 Salata Roberto
23 Dente Chiesa di S. Pietro 35 Ballon Gaudenzio
24 Arno Prepovet - 50 Stepich
25 Colcich Punta abisso 45 Rucconi Antonio
26 Puttina - 40 Boni Antonio fu Domenico
27 Gerisella - 40 Ballon Marco
28 Gromaciza Mezzo Bochić 25 Burburan Antonio padre
29 Drio Puntal de maistro Feral 40 Maver Giuseppe
30 Cancelleria de siroco Arno Prepovet 22 Sidrovich Giovanni
31 Tonera colcić - 35 Burburan Antonio
32 Puntal de tonera Feral 40 Rucconich Giovanni
33 Zarnoviza - 35 Sidrovich Stefano
34 Ialbriciza Artina 28 Strogna Gaudenzio
35 Lastra Boch Abisso 80 Burburan Stefano
36 Isola Visochi 35 Croce
37 Colonetta Seca Boch 45 Vescovich
38 Priat grande - 35 Bracco Domenico
39 Mezza gerisella - 40 Strogna
40 Radiboi roverso - 35 Maver

[70]

3. La capra è sempre stata considerata un animale simpatico, ma un po' bizzarro, per il suo carattere imprevedibile e un po' avventato, quindi è stata presa come punto di riferimento in molti proverbi popolari e modi di dire, come: "cosà ne more bravarà naucìt" (la capra non può insegnare al bravaro), per stigmatizzare comportamenti di persone inesperte che pretendono di insegnare le cose agli altri più capaci; "clàvarna càco cosà" (matta come una capra); "quando la capra monta scagno, la spuza e la fa dano", per indicare comportamenti grossolani e maldestri di presunti "nuovi arrivati o nuovi ricchi", e molti altri ancora. [71]


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Created: Monday, March 19, 2007; Last Updated: Friday, March 31, 2023
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