[Tratto da:
Giovanni (Nino) Bracco, Neresine - Storia e tradiuzioni, Gennaio 2004,
p. 42-71.
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l paese di Neresine, come abbiamo visto in precedenza,
iniziò a costituirsi verso il XVI secolo, i primi abitanti erano in gran parte
poveri contadini slavi, intere famiglie, presumibilmente in fuga
dall'invasione Ottomana dei Balcani, arrivate per cercare pace e prosperità;
erano di religione cristiana, e naturalmente portarono con se le loro
tradizioni, la loro lingua e i loro usi e costumi, certamente non sapevano
leggere e scrivere, altrimenti ne sarebbe rimasta qualche traccia. L'impatto
con la gestione amministrativa, organizzazione sociale e cultura veneta che
vigeva a quei tempi nel territorio, gestito dalle Città di Ossero e Cherso,
per quanto potesse essere stato grande, fu assorbito senza ripercussioni
traumatiche, sia dalle comunità residenti, che dai nuovi arrivati. La
convivenza fu caratterizzata dalla tolleranza e dal rispetto reciproco, non ci
sono notizie di conflitti politici o sociali per i primi tre secoli di
residenza. La vita nel paese era gestita in modo autonomo dagli abitanti che
continuavano a mantenere la lingua, gli usi e le tradizioni di origine, pur
assorbendo gradualmente quelle del posto.
L'arrivo nel XVII secolo di nuovi emigranti di origine
istriana, dalmata ed italiana, non provocò rilevanti cambiamenti, perché i nuovi
arrivati erano prevalentemente uomini scapoli, che si affrettarono a sposare le
ragazze del posto, formando nuove famiglie, interamente inserite nelle
tradizioni del paese. I figli nati dalle nuove unioni restarono di madrelingua
slava, ed anche i nuovi arrivati, in prevalenza capaci di leggere e scrivere,
adottarono il dialetto del paese come loro lingua quotidiana, pur conservando la
conoscenza della lingua italiana, anche perché era l'unica ufficiale scritta e
parlata nel territorio ed unico strumento di acculturamento.
Le donne vestivano abiti conformi alle usanze dei paesi
d'origine, che erano di foggia tipicamente balcanica e nei giorni di festa
indossavano il bellissimo costume tradizionale. Fino al XX secolo inoltrato,
l'abito di matrimonio delle spose del paese era rimasto il costume, tanto più
riccamente adornato quanto più la famiglia della sposa era abbiente.
Le campane.
Negli usi e costumi del paese le campane hanno avuto un
ruolo importante, specialmente quelle del
campanile della chiesa "dei Frati",
perché accompagnavano con il loro suono, a volte allegro a volte triste, la
vita degli abitanti ed annunciavano con sequenze precise gli eventi
quotidiani. Il loro rintocco si estendeva ben oltre l'area del paese,
raggiungeva tutte le campagne circostanti, da Bora a Tarsić, fino a San
Giacomo ed Ossero.
Le attuali
campane sono state installate nell'anno 1930,
furono acquistate con fondi raccolti in paese e tra i compaesani residenti in
America, e furono ordinate ad una fonderia di Vittorio Veneto, per sostiture
quelle vecchie, piccole e molto stonate.
La
campana "granda", di 508 kg, fu pagata dai Neresinotti di
New York raccogliendo i fondi tramite la "Susaida". Essa è dedicata alla Madonna
Immacolata e porta la scritta: "Questo concerto di campane - La mirabile
concordia del popolo di Neresine - unita ai fratelli lontani d'America - fece
fondere - a perenne memoria del suo amore a S. Francesco e ai suoi figlioli - e
alla gloria di Dio - nell'anno del Signore 1930";
La "mezzana", di 404 kg, dedicata a S. Francesco, porta la
scritta: "Proteggi o Padre S. Francesco, il popolo tuo devoto e benedici i suoi
faticati sudori".
La "piccola", di 279 kg, dedicata a S. Antonio, porta la
scritta: "Ti richiamo, sollecita il passo". Le ultime due campane furono pagate
con fondi raccolti tra gli abitanti del paese, in gran parte armatori, caratisti
e proprietari terrieri.
Tutti i giorni scandivano il ritmo delle attività lavorative
della popolazione, iniziando verso l'alba col suono dell'Ave Maria, a
mezzogiorno annunciavano la sosta per il pranzo e alla sera verso il
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tramonto di nuovo l'Ave Maria per il ritorno a casa.
Ai bambini veniva insegnato di farsi il Segno di Croce ogni volta che suonava
l'Ave Maria. A proposito dell'Ave Maria della sera, le mamme e le nonne
insegnavano ai bambini, come ammonimento e raccomandazione, la giaculatoria:
"Ave Maria o in casa o per la via". La campana utilizzata in queste circostanze
era la "mezzana". La campana "dei Frati" era anche quella che durante i
funerali, quando il corteo funebre, avvicinandosi al cimitero arrivava in
prossimità del bivio tra la strada principale e quella per Halmaz, iniziava a
suonare per accompagnare, col suo triste rintocco, il compaesano nel suo ultimo
viaggio terreno, fino alla sepoltura.
La chiamata per le cerimonie religiose avveniva secondo le
seguenti modalità: La Messa "piccola" quotidiana alla mattina di buon'ora,
veniva annunciata con una sola suonata della "piccola", per non essere confusa
con l'Ave Maria; la Messa "Granda" domenicale e delle altre feste comandate
delle ore nove, era annunciata con un primo prolungato scampanio a stormo delle
tre campane alle otto e mezzo (mezzora prima della funzione religiosa), poi un
secondo grande scampanio a stormo ancora delle tre campane alle nove meno un
quarto, seguito dal suono della sola "mezzana" per indicare appunto la seconda
chiamata, infine alle nove l'ultimo scampanio a stormo delle tre campane,
seguito dal suono della sola "piccola". La cerimonia religiosa della domenica
pomeriggio, il "Vespero" veniva annunciato con un solo scampanio a stormo delle
tre campane.
Nei giorni precedenti le festività più importanti come Natale,
Pasqua, Corpus Domini, San Antonio, San Francesco e le altre feste più
importanti, veniva lungamente suonato il "campanòn" per annunciare l'arrivo di
queste ricorrenze, così era chiamato il ritmico scampanio delle tre campane
della chiesa dei frati: si saliva nella cella campanaria del campanile, di
solito due o tre persone per darsi il cambio, data la lunga durata del
"concerto", si legavano opportunamente i battagli delle tre campane e tramite
adeguati rinvii, venivano suonate contemporaneamente da un suonatore esperto,
che tirava fuori una sorta di martellante allegra melodia, secondo uno spartito,
mai scritto, ma fedelmente tramandato dalle generazioni precedenti. Nei giorni
delle grandi festività, il "campanòn" veniva anche suonato negli intervalli tra
le varie funzioni religiose.
Per le stesse ricorrenze il "campanòn" veniva suonato anche
con le due campane della chiesa di Santa Maria Maddalena, che è stata la chiesa
parrocchiale fino alla costruzione del Duomo. Di solito il suonatore, sempre un
podgorano (abitante della contrada Bardo), si arrampicava sul tetto della
chiesetta e tenendo in mano i due battagli si esibiva nei prolungati allegri
scampanii, come voleva l'antica tradizione.
In quei giorni l'allegro suono dei due "campanòni" si spargeva
per tutto il paese, rincorrendosi e sovrapponendosi allegramente sotto la
complice spinta del vento, generando nella popolazione uno stato d'animo di
festosa attesa di vigilia.
Purtroppo il "campanòn" non viene più suonato da moltissimi
anni, sia quello dei frati che quello di S. Maria Maddalena, il regime politico
intauratosi dopo il 1945, non consentiva esibizioni sonore di quella natura, ed
ormai attualmente non ce più nessuno che possa o sia in grado di suonarlo. Le
campane di Santa Maria Maddalena, contemporaneamente a quella piccola del Duomo,
venivano anche suonate per richiamare i fedeli alle funzioni religiose celebrate
appunto in Duomo. La morte, in qualunque parte del mondo di un neresinotto,
veniva e viene tuttora annunciata dal prolungato suono di una delle due campane
della chiesa di Santa Maria Maddalena, che col suo martellante e insistito
rintocco sparge per il paese, un senso di struggente tristezza. (Probabilmente
questa antica tradizione cesserà con la morte dei due fratelli Zorovich che ora
si sobbarcano questa incombenza).
Alcuni anni fa, visto che per la drastica riduzione della
popolazione del paese non era più possibile trovare la disponibilità di tre
robusti uomini per suonare manualmente le campane dei frati, è stato installato
un sistema motorizzato funzionante elettricamente, tuttavia da qualche tempo non
viene comunque più suonata l'Ave Maria, e ci sono evidenti segni che tra non
molto tempo si smetterà di suonarle del tutto.
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Visto che si parla di campane, è opportuno dire anche delle nuove
"campane artificiali" recentemente installate in Duomo, ossia di un moderno
impianto di amplificazione elettronica, finanziato anche questa volta da
Neresinotti d'America, fatto installare dal parroco: trattasi di un fragoroso
rumore riproducente la registrazione di un concerto di campane stonate e male
assortite, che, oltre ad affliggere i malcapitati paesani nell'ora del richiamo
alle funzioni religiose, con il primo scampanio quotidiano alle 6 e 30 del
mattino anche d'estate, viene messo in funzione anche per battere le ore e le
mezze ore della giornata e per "suonare" l'Ave Maria di mattina, mezzogiorno e
sera. (Ogni mezzogiorno, prima vengono "sparati" i dodici rintocchi delle ore, e
subito dopo viene suonata l'Ave Maria, anche in piena stagione turistica).
I matrimoni.
I matrimoni erano avvenimenti molto importanti e
coinvolgevano in qualche modo gran parte del paese; essi erano preceduti da
lunghi fidanzamenti che si concludevano con con il rituale della visita ad uno
ad uno di tutti i parenti, per il saluto e la presentazione definitiva dello
sposo/a. Poiché il giro delle visite, molto formali, includeva sia i parenti
dello sposo che quelli della sposa, questo girar di casa in casa spesso
diventava un tour de force molto faticoso, considerando la grande prolificità
delle famiglie del paese.
Le feste di matrimonio vere e proprie duravano anche due o tre
giorni, a seconda delle condizioni economiche della famiglia dello sposo e si
svolgevano, più o meno, col seguente rituale :-Alla mattina del giorno della
cerimonia il o i compari (testimoni) dello sposo andavano con il loro seguito a
prelevare la sposa (neviesta) ed il suo seguito, nella casa di quest'ultima e la
accompagnavano in corteo in chiesa, dove aspettava lo sposo ed insieme si
recavano all'altare per la cerimonia religiosa. All'uscita dalla chiesa gli
sposi venivano tempestati di confetti (bomboni de sposa), lanciati da parenti e
amici, con grande gioia dei ragazzini del paese, che si lanciavano tra le gambe
dei partecipanti al corteo nuziale, per farne ambita incetta, quindi la sposa al
braccio dello sposo, con musica in testa, e corteo al seguito, si recavano nella
casa della sposa, dove li attendavano le tavole imbandite per il ricco pranzo di
nozze (di solito le portate venivano preparate dalle donne anziane del paese,
notoriamente le più esperte nella preparazione dei cibi tradizionali
dell'occasione). Finito il pranzo, nel pomeriggio inoltrato, si andava a casa
dello sposo, ancora tutti gli invitati in corteo, con musica e sposi in testa.
Arrivati a casa dello sposo, sgomento! La porta era sbarrata, le luci spente,
silenzio tombale! Allora il compare dello sposo si avvicinava alla porta e
batteva alcuni colpi: silenzio! Ribatteva altri colpi e dopo un po' si sentiva
dall'interno una voce femminile, della suocera (secarva), che diceva: chi è?
Rispondeva il compare: Signora, sono il tal de' tali che accompagna vostro
figlio che vi porta la donna che ha scelto come moglie, dall'interno la voce
risponde: chi è questa donna e com'è? E qui il compare iniziava a descrivere le
qualità della ragazza e della sua famiglia, soffermandosi prevalentemente sulle
caratteristiche più femminili, spesso, anche in funzione delle libagioni già
consumate, la descrizione si spingeva verso ammiccamenti, anche velati di
qualche malizia …., tra le risate represse degli astanti. A questa messa in
scena, oltre agli invitati, assisteva con grande spasso tutto il vicinato e
naturalmente anche tutti i ragazzini del paese. Alla fine della descrizione la
voce interna snocciolava una sfilza di domande come: - Sa cucinare? Sa mungere
le pecore? Sa fare il formaggio? Sa filare la lana? Sa lavorare a maglia? Ecc.
Dopo l'ennesima risposta affermativa del compare dall'esterno, finalmente si
spalancava la porta facendo entrare gli sposi e gli invitati nella casa
approntata di tavole imbandite per il proseguimento della festa, che andava
avanti per i successivi due giorni.
Fino al XIX secolo inoltrato la musica veniva fatta suonando
la tradizionale cornamusa (mescìc ’),
venivano anche cantate dalle donne antiche canzoni matrimoniali, che purtroppo
sono andate perdute per il disuso nei tempi moderni. Anche le danze si
svolgevano al suono del mescìć, esistevano due o tre tipi di danza che
attualmente il gruppo folcloristico del paese cerca di mantenere in vita. Verso
la fine del XIX secolo arrivarono nuovi strumenti musicali, il mescìć andò in
disuso e fu sostituito nelle cerimonie nuziali e per il ballo dalla fisarmonica
(armonica).
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Le cerimonie funebri.
Quando moriva qualcuno,
veniva allestita la camera ardente nella stanza principale della casa dove la
persona deceduta veniva esposta al pubblico, ai piedi del letto di morte
veniva collocata una tazza con dell'acqua santa e un particolare fiore bianco
chiamato cherubina, immerso nella tazza, veniva utilizzato per aspergere il
morto. Tutto il paese si recava alla casa del morto per l'ultimo saluto,
bambini inclusi, la prassi richiedeva che come prima cosa si andasse a far
pocropìt (aspergere con l'acqua santa) il defunto e poi fare le condoglianze
ai parenti. La salma, secondo le disposizioni amministrative del tempo
(sicuramente nel XVIII e XIX secolo), veniva tenuta in casa per due giorni
prima del funerale e della sepoltura. La sera e per tre sere di seguito, dopo
cena, nella stessa casa, le donne del paese recitavano la detva, ossia il
rosario dei morti. Nei tempi antichi la detva era recitata, anzi no, era
cantata nel dialetto slavo del paese, ed anche in tempi più recenti nelle
famiglie di "sentimento croato"; infatti, il rosario era proprio cantato come
una a specie di "rap" melodico fortemente ritmato e cadenzato, a somiglianza
di certi canti popolari ancora oggi in uso nelle campagne bulgaro-moldave.
Nella preghiera il ruolo del canto melodico (la musica) aveva assunto la
funzione principale, tant'è che le parole croate delle preghiera erano ormai
deformate e storpiate in funzione dell'esigenza ritmica del cantato. Per noi
bambini la recita della detva aveva un fascino irresistibile, tutti sapevamo
perfettamente cantare la parte musicale, anche se non sapevamo o non capivamo
le parole. Purtroppo anche questa bellissima tradizione della recita della
detva è andata in disuso, anche perché in paese le poche donne rimaste, non
sono più in grado di ricordare le vecchie usanze e mantenerle in vita.
La salma veniva anche vegliata nella notte da parenti e amici.
Durante la veglia i padroni di casa, per rifocillare i convenuti, servivano
prosciutto, vino, grappa, fichi secchi, dolci, ecc. La veglia era anche
un'occasione di grande socialità, durante la quale si raccontavano vecchie
storie di paese, aneddoti ridicoli ed altre amenità per tener su la compagnia,
che spesso da triste si trasformava in un allegro convivio. Tuttora questa
tradizione viene mantenuta in vita.
La cerimonia religiosa veniva celebrata nella chiesa
parrocchiale, in Duomo, oppure nella chiesa dei Frati se il defunto apparteneva
al rione Frati o Halmaz.
Durante il funerale le donne del paese eseguivano i
tradizionali canti funebri ricordando le virtù del defunto (come le antiche
prefiche) in dialetto slavo antico, che risuonava con forzati vocalizzi "di
testa" e con forti cadenze, riscontrabili ancor oggi in certi canti popolari
ucraini e bulgari. Purtroppo anche questi canti tradizionali, che sono stati
eseguiti fino attorno al 1930, sono andati perduti col disuso.
Il carnevale.
Il carnevale è stato sempre una delle feste più attese e
sentite in paese. Secondo il costume veneziano da cui la festa deriva, il
periodo carnevalesco cominciava almeno 15 giorni prima dell'ultimo giorno di
carnevale con cortei di maschere, che specialmente la sera andavano di casa in
casa a fare scherzi, a giocare a farsi riconoscere e poi a mangiare e bere
fino a tardi. Il dolce tipico di carnevale, che tutte le famiglie provvedevano
a preparare per offrirlo alle maschere, erano i crostoli (galani o bugie).
Ogni sabato e domenica sera c'era il ballo a cui partecipavano tutti i giovani
del paese. Negli ultimi tre giorni di carnevale i giovani del paese formavano
una banda mascherata, che con musica in testa giravano di casa in casa, di
stuagne in stuagne, esibendosi in lazzi e canti carnevaleschi per portare
allegria e raccogliere provviste di vino, dolci, salsicce, ed ogni altra cosa
buona che i padroni di casa erano disposti a dare "volentieri", per poi fraiàr
(fraiàr ofraiàt è un termine per significare mangiare e bere in modo smodato
per festeggiare, dar fondo a tutte le scorte senza pensare al domani,
gozzovigliare) tutti insieme in piazza l'ultimo giorno di carnevale. L'ultimo
giorno di carnevale, il martedì grasso, dopo il pranzo, tutti gli abitanti in
maschera si radunavano nella piazza del paese per festeggiare e salutare il
carnevale. Nella piazza veniva allestito un palco dove prendeva posto il
maestro di cerimonia e il o i suonatori del tradizionale mescich
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(zampogna), che ancora oggi viene
riesumato per l'occasione. Il centro della piazza era lasciato sgombro per lo
svolgimento dei balli, gli animatori della festa erano gli stessi giovani
della banda mascherata che abbiamo visto prima. Al suono del mescich
iniziavano i balli dando fondo a tutto il repertorio tradizionale (racich,
pìhat,…), venivano coinvolte nei balli le ragazze del paese, prevalentemente
vestite nel tradizionale costume, e tra bevute, canti e lazzi si andava avanti
fino a pomeriggio inoltrato; infine, al culmine della festa si tirava fuori il
carnevale: un pupazzo di paglia in grandezza naturale, vestito di tutto punto,
con cappello in testa, opportunamente preparato per lo scopo, a cui si dava
fuoco tra canti, balli e sollazzi. Alla fine della festa si tornava a casa, i
bimbi con un po' di malinconia per la fine di un meraviglioso gioco, i
giovanotti e le signorine per cenare e tornare a ballare, nella sala da ballo
del paese, fino a notte inoltrata. Nella prima metà del XX secolo, fino al
1946, il gran ballo serale dell'ultimo giorno di carnevale, veniva organizzato
come "il Gran Veglione", con l'elezione del re e della reginetta della festa.
Re era eletto il ragazzo che durante le serata di ballo aveva ricevuto dalle
ragazze più "cotillons" appuntati con uno spillo sul vestito; reginetta era la
ragazza che aveva ricevuto invece il maggior numero di cartoline (proprio
normali cartoline) dai ragazzi durante il ballo. L'uso delle cartoline era
dovuto, molto probabilmente, alla difficoltà di appuntare i "cotillons" sui
vestiti più leggeri e delicati delle ragazze, senza sottoporle al rischio di
accidentali, ma fastidiose punture.
La mattina successiva tutti in chiesa (soprattutto le ragazze)
per farsi cospargere il capo di cenere: iniziava la Quaresima.
È rimasto drammaticamente impresso nella memoria dei
compaesani il "veglione" del carnevale del 1946, in cui, in pieno regime di
Tito, la "fronda" dei giovani del paese elesse reginetta Italia (Itala) Abate e
re Latino Bracco. Certamente la Itala era una tra le più belle ragazze del
paese, così come Latino sul versante maschile, ma la faccenda fu presa come una
vera e propria provocazione dalle autorità politiche del paese, che aprirono
un'inchiesta sull'accaduto, arrestando e mettendo sotto duro interrogatorio
alcuni giovani, nell'intento di scoprire e perseguire i responsabili. Quello fu
l'ultimo "Veglione di carnevale" nella storia del paese e l'inizio della fuga
verso la libertà dei giovani.
Le stargurizze.
Le stargurizze (streghe) era un'antica festa dei bambini che
ricorreva il 12 marzo, festa di S. Gregorio (Sv. Grhur), (forse di origine
friulana, dove a tutt'oggi si festeggia con le stesse modalità),
corrispondente grossomodo all'americana Halloween. Infatti, nella notte di S.
Gregorio era previsto che arrivassero le stargurizze per fare dispetti ai
bambini, quindi per esorcizzare l'evento e tenerle lontane dalle proprie case,
essi dovevano andare a raccogliere delle fascine di ruòsie, i rami secchi che
venivano potati nei vigneti e sistemarle in punti strategici intorno alla casa
(questa operazione è probabilmente stata introdotta per indurre i bambini a
raccogliere i rami tagliati e aiutare quindi gli adulti a pulire le vigne, che
venivano potate in quel periodo dell'anno), e quando faceva buio si chiudevano
in casa a spiare timorosi dalle finestre l'arrivo delle streghe. Per
assecondare questa credenza e stimolare i bambini nella loro fantasia, i
ragazzi più grandi si mascheravano da streghe e giravano di stuagne in stuagne
agitando lumini (feralici) e gridando ossessivamente.
La festa dei coscritti.
Era la tradizionale festa di saluto dei giovani del paese,
soprattutto alle ragazze, prima di partire per il servizio militare (la leva).
La festa si svolgeva nei giorni precedenti la partenza, di solito un sabato e
la successiva domenica, ed era abbastanza "vivace", ma era vista con
particolare simpatia e comprensione dalla popolazione, data la circostanza. I
coscritti si radunavano in piazza, nei locali pubblici, giravano in corteo per
il paese cantando le tradizionali canzoni più adatte per l'occasione: "Addio
Neresine", "Addio mia bella addio", ecc. Alla sera facevano il
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giro delle case delle ragazze verso cui avevano aspirazioni amorose, cantando
sotto le finestre interminabili serenate. I canti andavano avanti fino a notte
inoltrata, e a mano a mano che l'effetto delle libagioni diventava più
evidente, il repertorio dei cori tendeva sempre più verso il patetico. Alla
fine dei canti escogitavano una trovata, il più possibile scherzosa e
stupefacente, che generalmente consisteva nell'andare a prendere i vasi di
fiori dai cortili delle ragazze del paese e portarli in piazza, allestendo un
bellissimo giardino, poi andavano a prelevare dall'ormeggio un caìcio,
generalmente quello del padre di una delle ragazze più corteggiate dai
giovani, e lo portavano in piazza, allestendo una scherzosa messa in scena,
ogni anno diversa, che la mattina dopo avrebbe dovuto stupire il paese.
È rimasta memorabile la trovata dei coscritti di un certo anno
…. di molti anni fa, che hanno compiuto l'impresa di portare in spalla una barca
fino al "lago" (un grosso stagno) in vetta alla collina di Bardo, dove l'hanno
ormeggiata con tutte le regole.
La Settimana Santa.
La Settimana Santa era un altro avvenimento tradizionale
molto atteso e sentito, specialmente per i ragazzi. I ragazzi del paese erano
tutti chierichetti, quelli del rione Frati frequentavano la chiesa dei Frati,
non solo per servir messa, ma per passare parte della giornata tra chiesa,
sacrestia, convento, porticciolo e dintorni: tutto questo era per loro un
grande terreno di gioco.
Nella Settimana Santa c'era un gran da fare: costruire il
Santo Sepolcro, coprire con un panno nero i crocifissi della chiesa, tirar fuori
l'antico strumento di legno, la screbetuàina o più scherzosamente grabusàlo, da
grabusàt, cardare la lana, per associazione al rumore cupo prodotto da questa
operazione. La screbetuàina era un grosso strumento di legno a forma di cassone,
costituita da un robusto telaio e da tante lamelle di legno duro e flessibile,
che azionate da un grosso perno dentato, messo in rotazione da due maniglie,
produceva, tramite una cassa armonica, un forte e cupo suono. Questo strumento
veniva utilizzato per richiamare i fedeli alle funzioni religiose, in
sostituzione delle campane, che venivano silenziate. L'operazione di chiamata
era effettuata dai ragazzi, che andavano in giro per il rione portando a spalla
il grosso strumento, e dai tre punti strategici del rione, bivio per Halmaz da
strada principale, incrocio stuagne Catùricevo e incrocio strada principale con
vialetto verso la chiesa, chiamato in gergo Tabèlina, lanciavano una lunga
"grattata" seguita dal grido corale rispettivamente: "parviput na ofizi nel
primo punto, drughiput na ofizi nel secondo e sadgniput na ofizi nel terzo
(prima, seconda e ultima chiamata per la funzione religiosa), con grandissimo
orgoglio e soddisfazione per aver portato a termine l'importante compito. Dal
1918, col passaggio delle isole "sotto l'Italia", la chiamata nel dialetto slavo
è stata abolita, è rimasta soltanto la "grattata". Ci si preparava con grande
impegno anche alla "Barabàna". Barabana era nel rito della Settimana Santa, la
conclusione della liturgia che con salmi cantati in chiesa ricordava il processo
ed il martirio di Gesù Cristo. Il rito si svolgeva verso sera nella chiesa buia,
illuminata soltanto da un particolare grande candelabro, posto davanti l'altare
maggiore, costituito da un triangolo equilatero con il vertice rivolto verso
l'alto, sui cui lati minori erano sistemate accese delle candele (forse
tredici?). Tutti i ragazzi del paese assistevano al rito muniti di raganelle
(screbetuàinize) e ogni altro tipo di attrezzo che potesse fare rumore. La
cerimonia era divisa in tante parti quante erano le candele e procedeva
lentamente col canto monotono e solenne dei coristi sistemati nel coro
dell'altare maggiore. Alla fine della prima parte veniva spenta una candela e
dopo una breve pausa si riprendeva a cantare per spegnere la successiva candela
e così via. La procedura di spegnimento di ogni candela merita un
approfondimento: alla fine dei canti un chierichetto, con ostentata lentezza e
piglio solenne, armato della particolare canna dotata di cappuccio conico di
latta all'estremità, si avvicinava al candelabro e con gesti lenti e misurati
abbassava il cappuccetto sulla fiamma della candela spegnendola. Dalla folla dei
ragazzi, almeno tutti quelli del paese dai cinque ai sedici anni, nel silenzio
della chiesa emergeva un appena percettibile oooh! Poi riprendeva il canto. [47]
A mano a mano che si spegnevano le
candele e la chiesa rimaneva sempre più al buio, la tensione aumentava. Allo
spegnimento dell'ultima candela, che rappresentava nel rito liturgico il
momento della morte di Gesù sulla croce, e quindi quando la chiesa era ormai
completamente buia e l'emozione era arrivata al massimo, si scatenava la
barabana, ognuno cercava di fare il massimo del rumore possibile con le
proprie raganelle, poi venivano aperte le porte della chiesa e si correva
fuori a proseguire il baccano per lungo tempo. L'emozione di questi momenti,
la gioia ed il divertimento rimangono indelebilmente impressi in tutti i
Neresinotti che da ragazzi hanno avuto la fortuna di partecipare a questi
tradizionali avvenimenti. Poiché a Neresine c'erano due chiese ugualmente
importanti, la cerimonia si svolgeva sia nella chiesa dei Frati che in Duomo,
con orari leggermente sfasati, quindi la gioia e l'emozione per i bambini e
ragazzi del paese, che cercavano di partecipare ad entrambe le cerimonie,
veniva raddoppiata.
La parte più importante e sentita della Settimana Santa era la
Processione del Venerdì Santo, anzi le processioni, perché le due chiese, Frati
e Duomo, facevano due processioni separate, una il venerdì, quella dei Frati,
che era la classica processione del rituale tradizionale della Settimana Santa e
l'altra il sabato in Duomo per celebrare, in questo caso, la Resurrezione di
Gesù Cristo, cerimonia questa, del tutto unica tra tutti i paesi delle due
isole.
La processione "dei frati" si svolgeva la sera, dopo cena, nel
percorso che partiva dalla chiesa, risaliva la strada principale del paese verso
sud fino al bivio per Halmàz, poi proseguiva risalendo verso Halmàz, per poi
ridiscendere all'incrocio dei Catùricevi e ritornare in chiesa. Lungo il
percorso, su entrambi i lati della strada, venivano sistemate dagli abitanti
della zona delle palle di cenere inzuppate di petrolio, a distanza di due o tre
metri l'una dall'altra; al passaggio della processione le palle venivano accese
in modo da illuminare, nel buio della notte, il percorso. Anche dalle finestre
delle case adiacenti la strada venivano esposte le più ricche tovaglie, tappeti
e luminarie. La processione procedeva lentamente, nella massima solennità,
accompagnata dai canti liturgici della circostanza. I paramenti dei sacerdoti
erano quelli delle grandi festività, ogni tanto la processione si fermava, i
canti venivano sospesi, veniva fatta risuonare nella notte una lunga e sonora
grattata del grabusàlo: grrrgrrr-grrr-grrr…., il sacerdote impartiva la
benedizione alla parte di rione attraversata, poi si proseguiva verso la
prossima tappa e relativa grattata e così via per quattro o cinque volte fino al
ritorno in chiesa. La suggestione di quella cerimonia era immensa: le luci
svolazzanti delle palle di cenere ardenti, le case tutte ben adornate ed
illuminate e l'eco del monte che restituiva i suoni nella notte, rendevano
indimenticabile quella serata.
La sera dopo, quella del Sabato Santo, la processione veniva
ripetuta con la stessa intensità e suggestione partendo dal Duomo, questa volta
però a "campane sciolte", per celebrare la Resurrezione. Il percorso veniva
illuminato con le stesse palle di cenere ardenti sistemate ai lati della strada,
e si svolgeva attraversando la piazza, risalendo verso Santa Maria Maddalena,
percorrendo poi la strada principale verso S. Antonio, proseguendo fino ai
Bonicevi (l'attuale fermata dell'autobus), per poi discendere lungo il saliso
fino alla piazza e risalire infine in chiesa.
I giardini e le case lungo il percorso erano addobbate con
luci e fiori, alle finestre venivano ancora esposte le più belle tovaglie e
tappeti, particolarmente suggestivo era l'addobbo della chiesetta di Santa Maria
Maddalena e della cappella di S. Antonio, adornate di palle di cenere ardenti e
fiori. Rispetto a quella dei frati, questa processione assumeva un aspetto ancor
più solenne e suggestivo, sia per la ricchezza dei paramenti sacri degli
officianti e del sacerdote che portava l'ostensorio col S. Sacramento, inclusi i
sei portatori del baldacchino, e sia perché ciascuno dei fedeli partecipanti
portava in mano un cero acceso, generalmente quello ricevuto in dono nella
tradizionale festa della Candelora. L'impatto scenografico della processione
notturna, illuminata dai fuochi fluttuanti delle palle di cenere ardenti, dalle
case addobbate con luci e drappi e dai ceri accesi dei partecipanti, era di
straordinaria bellezza e suggestione.
La Pasqua infine veniva festeggiata con il definitivo
scioglimento delle campane, che venivano lungamente suonate a stormo e con
prolungati suoni di campanòn, sia delle campane dei frati che di quelle di S.
Maria Maddalena.
[48]
Per la ricorrenza pasquale ogni famiglia preparava le pinze,
un dolce di antica origine veneta, (ove tuttora viene chiamato con questo nome),
una specie di panettone senza canditi o frutta secca, e per la gioia dei bambini
venivano anche preparate le uova colorate. Per il pranzo del giorno di Pasqua,
immancabile in ogni famiglia era l'agnello.
Il maggio.
Con questo nome veniva e viene chiamata una festa che si
celebra la prima domenica di maggio, la festa della gioventù, della primavera
e dell'amore, ed è singolare che venga celebrata solo a Neresine, in nessun
altro paese delle isole e altrove nella regione la festa è sentita con la
stessa intensità e partecipazione. Tale festività è derivata probabilmente
dall'antica tradizione dell'Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche, ecc.,
dove tuttora si festeggia in molti paesi di queste regioni con le stesse
modalità: portando in piazza il "maggio", un albero adobbato con nastri
variopinti ed eseguendo canti e balli intorno ad esso per festeggiare la
gioventù e l'amore A Neresine è comunque una festa tradizionale tramandata
dagli antenati che tuttora si festeggia in paese. I giovani, in "gran
segreto", andavano a tagliare nei boschi vicini un grande albero di quercia
(dubàz), chiamato appunto "il maggio" (muaj), e durante la notte con gran
fatica lo portavano in piazza, lo installavano proprio al centro, legandolo al
pozzo e lo addobbavano appendendo ai rami i variopinti fazzoletti di seta del
costume tradizionale delle donne del paese. In questo giorno i giovani e le
ragazze si radunavano in piazza per festeggiare l'avvenimento e ballare tutto
il pomeriggio al suono della tradizionale zampogna (mescìc). Le ragazze si
vestivano col tradizionale costume della festa ed i ragazzi con gli abiti
delle grandi occasioni; i giovani che prestavano servizio militare di leva o
che da poco erano stati congedati, amavano presentersi indossando le divise
ben lavate e stirate, per far più colpo sulle ragazze.
Successivamente, probabilmente dall'inizio del XX secolo,
l'addobbo del "maggio" con i fazzoletti è andato in disuso, sostituito
dall'adornamento della piazza intorno all'albero coi tanti fiori, probabilmente
l'alta percentuale dei preziosi e delicati fazzoletti che venivano
inevitabilmente sciupati durante la festa, ha consigliato di cambiare il
cerimoniale. I giovani quindi andavano a prendere i vasi di fiori dai cortili
delle case delle ragazze più carine e li portavano ancora in piazza, allestendo
intorno all'albero un bellissimo giardino fiorito. Infine andavano anche a
prelevare dall'ormeggio la barca (caìcio) del padre della ragazza più
corteggiata, o una delle più corteggiate, e con altrettanta fatica lo portavano
in piazza sistemandolo accanto all'albero.
Al mattino seguente la gente trovava la piazza addobbata in
questo modo straordinario. Tutti, specialmente le ragazze, accorrevano per
ammirare la messa in scena e riconoscere i propri fiori. Le ragazze si fingevano
arrabbiate per il furto dei fiori, i giovani si affrettavano a dichiararsi
responsabili di quelli della ragazza corteggiata o che intendevano corteggiare,
offrendosi di riportare il maltolto, a festa finita, nel posto d'origine,
smascherando così le proprie intenzioni amorose. La festa si concludeva con
ballo fino a sera inoltrata intorno all'albero al suono del mescic, sostituito
nei tempi più recenti dalla fisarmonica.
La festa del maggio (majo o muàj) è stata per molte
generazioni di giovani, specialmente nei tempi in cui il pudore femminile dava
poco spazio alla promiscuità fra i sessi, un'importante scorciatoia per
dichiarare i propri sentimenti ed allacciare nuovi amori.
La trovata di portare in piazza i fiori ed il caìcio è stata
mutuata dalla festa dei coscritti. Nei tempi più lontani, quando il paese
cominciava a dar segni di sviluppo crescente, e quando cominciavano a
manifestarsi segni di campanilismo competitivo tra i vari rioni, l'allestimento
del "maggio" è stato fatto, per un certo periodo, oltreché in piazza, anche in
Podgora e in Dubcinna (tra i rioni Frati e Piazza non ci sono mai stati
particolari antagonismi).
[49]
S. Antonio
da Padova.
La festa di S. Antonio, il 13 giugno, era molto sentita e si
celebrava "dai Frati", con grande messa solenne "in terza" (messa officiata da
tre sacerdoti, vestiti con i paramenti delle grandi occasioni). La chiesa era
addobbata con tanti fiori, i gigli tipici della stagione. La statua del Santo
veniva tirata giù dalla sua nicchia sopra l'altar maggiore ed esposta su un
apposito palco a lato della balaustra. Nei giorni precedenti la ricorrenza, la
festività veniva annunciata con prolungati suoni di "campanòn".
Fino al 1940, dopo la messa, si faceva la solenne processione
portando la statua del santo nel grande giro del rione Frati, lo stesso percorso
già descritto per la processione della Settimana Santa. Dopo lo scoppio della guerra la processione è stata limitata al
giro del chiostro del convento, poi nemmeno più quello.
In paese la festività era molto sentita, quindi per prepararsi
degnamente all'evento, per le tredici sere precedenti la ricorrenza, si recitava
il rosario davanti alla cappella di S. Antonio, sita sulla strada principale
vicino alla piazza, e dopo il rosario i fedeli (prevalentemente i giovani) si
esibivano lungamente in canti religiosi, che nelle belle serate di giugno
assumevano un contenuto di alta suggestione. Per dirla tutta, i rosari serali
avevano un certo successo, perché per i giovani del paese era un ottima
occasione per stare in compagnia delle ragazze, a cui era permesso uscire dopo
cena solo col pretesto religioso.
Il giorno della festa, per l'occasione, venivano da Cherso i
venditori di ciliegie e da Lussinpiccolo il signor Sicher e figlio col
furgoncino dei gelati, per la grande gioia dei bambini.
La processione del Corpus
Domini.
Questa era una delle più importanti festività del paese, non tanto per motivi
religiosi quanto perché in questo giorno si svolgeva la più grande e solenne
processione diurna dell'anno ed impegnava tutti per la sua preparazione. Il
percorso era lo stesso di quella del Sabato Santo, ma si svolgeva di giorno.
Lungo la strada venivano allestiti degli altari, davanti ai quali la
processione si fermava, il sacerdote officiante recitava alcune preghiere e
impartiva la benedizione. La chiesa di Santa Maria Maddalena e la cappella di
S. Antonio erano addobbate con fiori e festoni, anche tutte le case lungo il
tragitto esponevano dalle finestre i più bei tappeti e le più belle tovaglie.
Le fanciulle del paese, che indossavano il vestito bianco della prima
comunione, camminavano davanti al baldacchino sovrastante il sacerdote
officiante, che portava l'ostensorio col S. Sacramento, spargendo fiori di
ginestra sulla strada. Le stesse ragazze, il giorno prima della festa,
andavano nelle campagne circostanti, a raccogliere i fiori di ginestra, con
cui riempivano dei cestini di vimini, opportunamente rivestiti di velo bianco.
Il baldacchino era portato da sei persone di "rango", che indossavano anche
loro speciali paramenti sacri, e pagavano questo privilegio con un congruo
contributo economico annuale.
S. Anna.
Il 26 luglio, giorno della ricorrenza della festa di S.
Anna, era dedicato al tradizionale pellegrinaggio annuale sul monte Ossero,
sulla cui vetta si trova una piccola e antica chiesetta dedicata a S. Nicola
ed a S. Anna. La chiesetta, di piccole dimensioni, è costruita in blocchi a
vista di pietra massiccia, accuratamente martellati, è stata riedificata varie
volte perché soggetta ad essere colpita dai fulmini, la prima edificazione è
probabilmente opera dei monaci benedettini Camaldolesi, presenti come eremiti sul monte nell'XI secolo. Dalle cronache antiche
risulta che il monte veniva chiamato da questi monaci col nome di monte Garbo
appunto di S. Nicola. Comunque, più che un pellegrinaggio, la ricorrenza era
considerata in paese come la grande gita annuale sul monte.
Si partiva molto presto, alle due o tre della mattina quando
faceva ancora buio, e ci si incamminava lungo gli impervi sentieri; la marcia
durava, a seconda della lena dei partecipanti, dalle due alle tre ore. Lungo la
salita i vari gruppi si incontravano formando lunghi cortei, naturalmente,
poiché si trattava di una allegra e piacevole occasione per ritrovarsi tutti
assieme, specialmente i giovani, si
[50]
cominciava a cantare le tradizionali canzoni, scherzare e divertirsi come in
ogni gita estiva che si rispetti. Naturalmente c'era sempre qualcuno che
affrontava l'ascesa con maggiore raccoglimento e a piedi nudi, per tener fede a
un voto precedentemente espresso. In prossimità della vetta, in un leggero
avvallamento del terreno, c'era quello che veniva chiamato il lago di Farbiezof,
uno stagno lungo e stretto, pieno di acqua limpida e pulita, coperto da una
fitta pineta, dove si faceva una sosta ristoratrice, si beveva un po' di
quell'acqua fresca e ci si lavava gli occhi, perché la tradizione voleva che
quell'acqua avesse poteri medicamentosi, appunto per gli occhi. L'arrivo sulla
vetta coincideva con lo sfolgorante espandersi nel cielo delle luci dell'aurora,
quindi si assisteva da lassù al sorgere del sole, lo spettacolo era di
indescrivibile bellezza, la limpida giornata estiva, priva di vento, offriva uno
scenario meraviglioso. Le isole intorno, Sansego, Canidole, Unie, Levrera, fino
allo scoglio di Galiola, si specchiavano con mille colori sulla grande distesa
del mare in bonaccia. Il contorno delle due isole di Lussino e Cherso da
quell'altezza si vedeva ben stagliato, con gli infiniti promontori ed
insenature, a sud Lussinpiccolo e Lussingrande, sotto il paese di Neresine,
quello di Ossero, S. Giacomo e le case di Bora e Puntacroce, era una visione che
lasciava senza fiato, e ancora oggi, andare sul monte all'alba significa
assistere allo stesso immutato bellissimo spettacolo offerto dalla natura.
Comunque, arrivati tutti sulla vetta, il sacerdote, parroco o
frate che fosse, che accompagnava sempre i gitanti, tirava fuori i paramenti
sacri e celebrava la Messa nella piccola chiesetta di San Nicola. All'interno
potevano accedere non più di una quindicina di persone, quindi dall'esterno la
folla dei presenti partecipava in silenzio alla cerimonia, ammutolita dalla
suggestiva bellezza del primo sole che illuminava la cima del monte in quel
magico momento, e dalla sacralità del rito. Alla fine della Messa i vari gruppi
di partecipanti si riunivano per mangiare insieme la colazione al sacco portata
dal paese e cantare in coro le tradizionali canzoni popolari.
Una delle attività più praticate dai giovani in questa
occasione (anche se un po' riprovevole), era il far rotolare dalla vetta del
monte, grossi massi di pietra lungo il ripidissimo e sassoso pendio del versante
ovest (il lato opposto a quello del paese); alla fine il gioco si trasformava in
una divertente gara a chi riusciva a far staccare il masso più grosso e a farlo
arrivare più lontano possibile. Anche questo era uno spettacolo molto bello,
perché i massi assumevano nella discesa un'alta velocità, facendo grandi salti,
a volte anche superiori a un centinaio di metri.
Un altro doveroso adempimento era la visita alla grotta di San
Gaudenzio, era una grotta naturale a circa 200 - 300 metri dalla chiesetta di S.
Nicola, lato nord nel versante est del monte, raggiungibile percorrendo un
impervio e contorto sentiero, dove la tradizione vuole che il Santo avesse
trascorso una parte della sua vita come eremita. La grotta era costituita da due
locali ampi e puliti, quello più piccolo, che aveva un buco rotondo sul
soffitto, si diceva che fosse la cucina e l'altro la camera da letto. A quel
tempo c'era ancora una robusta trave di legno appoggiata su due pietre, si
diceva ingenuamente che fosse la panca (buancić) dove il Santo si sedeva per
riposarsi e quando si preparava da mangiare.
Alla fine della gita si ritornava a casa stanchi, ma felici,
dove si giungeva solitamente poco prima di mezzogiorno.
Le colede di S. Maria
Maddalena.
Per festeggiare la felice conclusione della mietitura del
grano, il 22 luglio, giorno della ricorrenza di S. Maria Maddalena, si andava
nei campi a raccogliere le stoppie, per ammucchiarle al centro del campo
stesso, per poi la sera bruciarle, facendo dei grandi falò notturni (le
colède). Il punto focale di tutta la festa era il prato antistante la chiesa
di S. Maria Maddalena, dove durante il giorno i giovani del paese accumulavano
grandi quantità di stoppie, raccolte dai campi vicini. La sera poi, appena
faceva buio, veniva dato fuoco alle stoppie provocando una grandiosa colèda.
Naturalmente i giovani e le ragazze del paese si raccoglievano tutti intorno
al fuoco per attizzarlo e giocare ad attraversarlo di corsa, scherzando
gioiosamente fino a tardi. In quella notte il paese assumeva un aspetto di
alta suggestione: i molti fuochi accesi qua e là, e la
[51]
grande colèda nell'alto pianoro di S. Maria Maddalena che illuminava il monte
e tutt'intorno, rendevano indimenticabile quella serata.
Secondo la tradizione più accreditata, la festa trae origine
da una memorabile battaglia, avvenuta verso la fine del XV secolo, con truppe
del regno ungherese guidate da Hundyadi e dal bellicoso frate Giovanni da
Capestrano contro i turchi che assediavano la città di Belgrado. Durante le fasi
finali dell'assedio, il frate diede ordine di incendiare il fossato sotto le
mura, preventivamente riempito di stoppie e pece. L'enorme falò scompaginò le
truppe assedianti facendole fuggire in disordinata ritirata, infliggendo così al
nemico una rovinosa sconfitta. Il fatto avvenne la notte della festa di Santa
Maria Maddalena. Tra quei soldati cristiani si sarebbero trovati alcuni antenati
dei Neresinotti, in seguito rientrati nell'isola. In ricordo di quell'evento si
è continuato tutti gli anni a celebrare la ricorrenza con le grandi colède
notturne, Non a caso nella antica chiesetta di S. Maria Maddalena si conserva
ancora e si venera un antico quadro, appunto di San Giovanni da Capestrano. Nei
secoli la festa si è consolidata nella tradizione del paese, forse anche come
pretesto per indurre i giovani a pulire i terreni già coltivati a grano, per
prepararli per la prossima zappatura o aratura.
Agosto.
"Agosto" venivano chiamati i
tre giorni della fieramercato annuale del paese, che si svolgeva appunto nei
primi tre giorni di questo mese. Per l'occasione arrivavano da tutte le parti
venditori, che esponevano di ogni tipo di mercanzia nelle loro bancarelle,
disposte in bel ordine in piazza e lungo la strada che dalla piazza porta a
marina (il porto).
Il primo giorno era riservato ai Sansegotti. Neresine aveva un
rapporto privilegiato con Sansego, in anni di scambi "commerciali" si era creato
un profondo senso di amicizia tra molte famiglie di Neresine e altrettante della
piccola e vicina isola. I Neresinotti comperavano prevalentemente l'uva da
Sansego per fare il vino, mentre i Sansegotti acquistavano a Neresine tutto
quello di cui avevano bisogno: olio, formaggio, vestiario, stoffe, sementi, ecc.
Nei giorni della fiera arrivavano in paese anche gli abitanti
dei centri vicini, dalle isole di Sansego, Unie e Canidole (Sracàne), e dai i
paesi di Ossero, Ustrine, Belèi, S. Martin de Cherso (Martinsciza), S. Giacomo,
Puntacroce, ecc. In quei giorni si organizzavano anche i giochi annuali
tradizionali: corsa degli asini, tiro alla fune, albero della cuccagna, ricerca
di un anello in un catino pieno di farina con le mani legate dietro alla schiena
(da raccogliere con la bocca), ecc. L'albero della cuccagna merita un
approfondimento perché, oltre a rappresentare il clou dei giochi, veniva
realizzato in modo originale. Trattandosi di un paese avente grande familiarità
col mare, il gioco si svolgeva appunto sul mare, nel porto: si legava in
posizione orizzontale un lungo palo di legno sulla colonna (bitta) in riva
davanti al tuorić, (l'attuale ufficio turistico). Il palo era di solito un
albero di nave, lungo circa dieci-quindici metri, ben levigato e pitturato con
lustrofin (flatting), alla cui estremità venivano fissate tre bandierine rosse,
distanti circa mezzo metro l'una dall'altra: il primo, secondo e terzo premio.
Il palo veniva accuratamente spalmato con sevo (luòi), in modo che fosse ben
scivoloso, dopo di ché i concorrenti, tutti i ragazzi del paese, dovevano
camminare a piedi nudi sul lungo palo fino a raggiungere le bandierine e
strapparle. Naturalmente l'oscillazione del flessibile palo sotto il peso del
partecipante e la sua untuosa scivolosità, facevano cadere in mare dopo pochi
passi il malcapitato, tra le risate di divertimento e i gridi di incoraggiamento
dei presenti. A mano a mano che i tentativi proseguivano, le qualità
equilibristiche dei concorrenti miglioravano e si riduceva l'untuosità del palo,
il tragitto percorso lungo il palo aumentava, prima dell'ineluttabile tuffo in
mare. Infine dopo l'ennesimo tentativo le bandierine venivano finalmente
strappate ad una ad una, tra il festoso entusiasmo e gli applausi degli astanti,
accalcati lungo le rive del porto.
Venivano anche organizzate gare sportive come la corsa, nuoto,
nuoto subacqueo (gnorìt), la gara di tuffo dagli alberi delle navi in porto,
ecc.; ma soprattutto si effettuavano le competizioni più attese: la regata
annuale delle barche a remi e la regata annuale delle barche a vela.
[52]
La regata delle barche a remi era quella più sentita perché si
svolgeva tra il caici più veloci dei vari rioni, spinte dai vogatori più
esperti e robusti scelti tra gli abitanti degli stessi rioni di appartenenza.
L'equipaggio era composto da quattro vogatori più il timoniere, venivano
selezionati anche i remi più leggeri ed efficienti dell'intera contrada.
Alla preparazione ed agli allenamenti degli equipaggi, che
duravano parecchi giorni, assisteva con grande partecipazione tutto il
quartiere. Alla regata prendevano parte di solito tre o quattro barche: una per
i Frati, una per la Piazza, una per Biscupia ed una con prevalente
partecipazione di Sottomonte (Podgòra). Il giorno prima della regata si tiravano
in secco le barche affinché si asciugassero e fossero più leggere, poche ore
prima della gara si ungeva la carena con sevo per renderle più scivolose
nell'acqua (qualcuno azzardava formule segrete di miscele di vari grassi), il
percorso era di un miglio marino, di solito da Scoìch fino all'imboccatura del
porto di Magaseni. Alla regata assisteva naturalmente tutto il paese, chi dalle
barche, chi da terra; le rive erano strapiene di tifosi urlanti. Poi, alla fine
della regata e per i successivi giorni, quelli che non avevano vinto dovevano
sopportare le canzonature dei vincitori, che di solito erano quelli del rione
Frati, perché avevano la barca più veloce (la Slava del Zimich).
Analogamente accadeva per la regate delle barche a vela, ma
qui la materia era più tecnica e quindi più ristretta agli "addetti ai lavori",
perché ogni rione doveva scegliere la barca più veloce ed il velista più bravo e
la selezione durava praticamente tutto l'anno, in quanto il mare davanti il
paese, il Canal, era un campo di regata in attività ogni domenica per tutta la
buona stagione dell'anno. Per i giovani bordeggiar era il divertimento più
grande, specialmente quando le ragazze andavano a fare il bagno in Rapoce,
Lucizza o sulle rive del porto: imbarcarne qualcuna era la cosa più ambita e
prestigiosa a cui i ragazzi potessero aspirare.
S. Francesco.
La festa di S. Francesco, a cui era dedicata la chiesa
dei frati, il quattro di ottobre, era anche questa una delle più importanti
del paese, perché fino alla costruzione del Duomo, dedicato alla Madonna della
Salute, che divenne poi anche la patrona del paese, il santo patrono era S.
Francesco. La festa si svolgeva con le stesse modalità di quella già descritta
di S. Antonio, con esposizione della statua del Santo, tirata giù dall'altra
nicchia sopra l'altar maggiore, processione solenne nel rione Frati e
"campanon".
La Madonna della Salute.
Da quando, alla fine del secolo scorso, è stato costruito il
Duomo, la Madonna della Salute, a cui esso è stato dedicato, è diventata la
patrona del paese, che si festeggia nel mese di novembre. Data la scarsità di
neresinotti che vivono ancora in paese, questa festa ha perso un po' della sua
antica importanza, anche perché era vincolata, per una certa analogia con
Venezia, alla vita del mare, alla navigazione e all'armamento navale di
Neresine. La festa si continua tuttavia a festeggiare con grande solennità a
New York, dove, tra nativi del paese e discendenti si contano più di duemila
persone. I neresinotti di New York conservano gelosamente una grande
riproduzione della pala dell'altare maggiore del Duomo e la espongono durante
la messa, sull'altare maggiore della chiesa dove celebrano la ricorrenza. La
festa patronale, accompagnata da grande party danzante serale, è così
diventata anche l'occasione di ritrovarsi, rinnovare i nostalgici ricordi e
cantare insieme le vecchie canzoni che ormai fanno parte del folclore paesano.
La spremitura delle olive.
In paese, fin dai tempi più antichi, la popolazione si
dedicava con particolare cura alla coltivazione dell'ulivo, da cui si ricavava
il buon olio, ritenuto una delle ricchezze più preziose per le famiglie.
I mesi di novembre e dicembre erano dedicati alla raccolta e
spremitura delle olive. Questo era un avvenimento molto importante per il paese,
non solo per la ricca produzione di olio, ma soprattutto
[53]
perché cambiava un po' il modo di vivere in quel periodo. Le operazioni di
spremitura si svolgevano nei tre frantoi del paese a ciclo continuo, su tre
turni lavorativi giornalieri e durava parecchie settimane. Il frantoio (torcio o
tuòric) era dotato delle varie macchine ed attrezzature per le lavorazioni ed
era gestito dal proto (pruoto) (capo frantoio), mentre i proprietari delle olive
dovevano fornire la legna occorrente per scaldare l'acqua necessaria per la
produzione dell'olio e la manodopera: di solito da sei a otto persone, per
azionare la grande macina di pietra ed il torchio a vite. L'unità di misura per
questa attività era la mijuàda (macinata), corrispondente a quattro quintali,
ossia la quantità di olive occorrenti per un ciclo completo di macinatura e
spremitura. Alla macinatura partecipava tutta la famiglia proprietaria della
partita di olive, in quanto la manodopera doveva trovarsi in casa o tra i
parenti, e si svolgeva alla luce dei lumi a olio e del fuoco che crepitava nel
focolaio, sotto all'enorme calderone di rame dell'acqua calda. Intorno al
caminetto, su basse panche (buancići), sedevano i nonni ed i bambini, era una
bella occasione per stare tutti insieme, si raccontavano vecchie storie di
paese, aneddoti curiosi e ridicoli, era un momento di socialità indimenticabile,
in cui gli anziani coglievano l'occasione per trasmettere ai giovani le antiche
storie e tradizioni. Le donne portavano da mangiare per i lavoranti, c'era
sempre disponibile pane e formaggio, prosciutto, vino, fichi secchi, grappa e
altre prelibatezze. La parte più suggestiva era la spremitura nel torchio a
mano. Dopo aver riempito le sporte con la pasta di olive ricavata dalla
macinatura ed averle impilate sul torchio, si cominciava a stringere la grossa
piastra a vite che schiacciava le sporte. All'inizio la vite scendeva con una
certa facilità azionata dal proto, poi, quando l'avvitamento si faceva più duro,
intervenivano tutti gli uomini che tiravano con due corde una grossa trave che
faceva da manico alla vite stessa. Ogni tiro di trave faceva compiere una
rotazione alla vite di circa cento-centodieci gradi. Il tiro della trave era
cadenzato da una vecchia cantata: "longaaa eeee secondaaa, brazia guanta
curaiooo, forza tira de braviiii, tutti decordiiii, tomba le viteee, pronta le
asteee, zo daghe denovooo, zo, zo, zo che la basaaaa"; il "basa" (bacia)
significava che la trave era arrivata al fine corsa, andando a sbattere contro
il palo verticale di un argano, che più tardi sarebbe stato adoperato per lo
stesso scopo. Finita la prima operazione si riportava la trave al punto di
partenza, producendo un caratteristico rumore che il grosso dente di acciaio
emetteva passando sopra i fori di impegno della piastra della vite: gdan, gdan,
gdan, gdan……, e si ricominciava con la tirata successiva, e così via. A mano a
mano che aumentava la resistenza della vite, le voci aumentavano di volume e si
facevano più affannose, alla fine, quando la resistenza della vite diventava più
forte della forza dei tiratori, si passava al tiro con l'argano. Si infilavano
due aste di robusto legno negli appositi fori del palo verticale che fungeva da
argano, si passava la fune che tirava la trave attorno al paloargano e quattro
uomini iniziavano a farlo girare; anche in questo caso, per uniformare gli
sforzi e cadenzare il passo, i "giratori" si aiutavano con la voce attaccando
una cantata composta di secche parole di incoraggiamento, ritmicamente ripetute.
Mentre la spremitura del torchio procedeva, il proto, con un enorme cucchiaio
dotato di lungo manico di legno, prelevava l'acqua bollente dal calderone e
irrorava la pila di sporte per facilitare la raccolta dell'olio, che insieme
all'acqua calda fluiva in un grande tino posto in un apposito buco sotto al
torchio. Nel tino l'olio, più leggero dell'acqua, si stratificava nella
superficie della miscela e l'acqua calda, a mano a mano che il livello saliva,
veniva scaricata in mare da un rubinetto inferiore. Alla fine il proto
raccoglieva l'olio, schiumandolo con un altro grosso cucchiaio dalla superficie.
L'ultimo strato, in cui si raccoglieva la parte più pesante dell'olio
emulsionato con l'acqua, la murca, (olio di scarto) veniva travasato in
contenitori separati per una successiva decantazione.
L'olio veniva conservato nelle pile o càmenize, recipienti di
pietra dura a forma prevalentemente di parallelepipedo, ricavati scavando un
grosso masso di pietra opportunamente squadrato. Le càmenize avevano dimensioni
variabili a seconda delle necessità delle famiglie, andavano da circa cinquanta
fino a oltre duecento litri, ogni casa ne aveva una o due. Per il pagamento
della spremitura i proprietari del tuòric trattenevano una percentuale dell'olio
prodotto.
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San Nicolò.
San Nicolò, il sei dicembre,
era la festa più attesa dai bambini perché era il Santo che portava i doni,
quello che in altre parti del mondo occidentale è Gesù Bambino, Babbo Natale,
Santaclaus, Santa Lucia, la Befana, ecc.; a Neresine era San Nicolò
(anticamente Sanctus Nicolaus da cui l'anglosassone Santaclaus). I bambini del
paese, come tutti i loro coetanei del mondo, in quella fatidica notte erano in
spasmodica attesa dell'arrivo di San Nicolò, che ovviamente scendeva dal monte
Ossero, ed essi non si stancavano di spiare nella buia serata la montagna,
nella speranza di vedere un lumicino, che qualcuno immancabilmente giurava di
aver visto. (San Nicolò de Bari, la festa dei scolari, a chi non fa la festa
un pugno sula testa).
Il periodo Natalizio.
Il periodo delle feste di Natale e fine anno era
caratterizzato da attività di preparazione straordinarie, sia per i grandi che
per i più piccoli. Le donne preparavano le cose buone come l'uva passita fatta
seccare in soffitta, le mandorle glassate in croccante, i fichi secchi, ipan
de fighi (smocvegnazi), sia quelli fatti con fichi (carcgne) secchi macinati e
impastati con un po' di grappa e semini di finocchio selvatico, ma soprattutto
quelli prelibatissimi fatti con i polussìci, fichi dolci (belizze) fatti
seccare al sole aperti, spaccati in due e poi pressati in particolari tazze di
legno dette ciàssize.
I bambini erano in attività frenetica, bisognava andare in
campagna a raccogliere il muschio per preparare il presepio, ogni casa ne aveva
uno; l'albero di Natale non veniva usato, solo in tempi molto recenti è stato
introdotto. I ragazzi più grandi del rione Frati preparavano il presepio nella
loro chiesa. Nella cappella di S. Antonio si approntava un tavolato, grande
quanto tutta l'area della cappella, e per parecchi giorni lavoravano per il suo
allestimento: fare il cielo, le luci, le grotte, mettere il muschio, inventare
ogni anno una sceneggiatura nuova, mettere bene in vista il palazzo di Erode, la
città di Betlemme, sistemare bene i pastori, le pecorelle e quant'altro in
dotazione della chiesa per la costruzione del presepio. I pastori, gli animali,
ed i vari personaggi erano di grandi dimensioni (circa 20-30 cm) ed erano molto
antichi, conservati con cura da generazioni di frati. Anche in Duomo si
approntava un bel allestimento natalizio, nei tempi più antichi si faceva una
grande grotta di cartapesta con tutti i personaggi della Natività nell'altare
della Sacra Famiglia, poi si è passati ad allestire un grande e bellissimo
presepio, a somiglianza di quello dei Frati; dalla fine della guerra questa
tradizione in Duomo è cessata del tutto.
Per i ragazzini un'altra attività molto attesa era "andar far
cadìt", si trattava, secondo un'antica tradizione, di accompagnare il frate a
benedire le case del paese nei giorni precedenti il Natale. Il frate, vestito
con i paramenti leggeri (camice bianco e stola), accompagnato da uno o due
chierichetti, vestiti anche loro con la rituale "cotta", attrezzati con turibolo
(cadìlo) e aspersorio, andavano di casa in casa a portare la benedizione e gli
auguri di Natale. Si entrava nella casa, il frate scambiava i convenevoli di
rito con gli abitanti, poi dopo le giaculatorie di circostanza, dava la
benedizione con l'acqua santa al presepio, che grande o piccolo che fosse, tutti
avevano allestito. Poi mettendo un po' d'incenso nel turibolo, in cui il
chierichetto si era premurato di attizzare le bronze (braci), faceva cadìt tutta
la casa, inondandola del tipico buon profumo (cadìt, fumare, inteso nel
significato di incensare). Alla fine il frate metteva (donava) un cucchiaino
d'incenso in un piattino, appositamente preparato dai padroni di casa, che nel
frattempo avevano riempito un piatto di frittole da offrire agli ospiti. Per i
ragazzini questo era il momento più atteso, perciò ne approfittavano, cercando
di mascherare la loro golosità, con mal celato atteggiamento di ritrosia.
Lungo il percorso dell'andar di casa in casa le bronze del
turibolo si consumavano, così i chierichetti si facevano dare bronze fresche
dagli stessi padroni di casa, che le prelevavano dagli spàher e dai fogoler
(ug'gnisce), allegramente scoppiettanti per la circostanza e la stagione. I
ragazzini, attraverso il rituale erano diventati esperti di frittole, ormai
sapevano dove e chi faceva la frittole più buone e poiché visitare tutte le case
del paese richiedeva un certo tempo, erano frequenti le baruffe per accaparrarsi
gli stuagni più ambiti.
[55]
I bambini dei vari stuagni, alla sera dopocena nei giorni
precedenti Natale, andavano "ad agnoleti ", ossia si raggruppavano in corteo e
con una lucerna in mano (feralić) andavano davanti alle porte chiuse delle
case dei vicini a cantare la filastrocca chiamata agnoleti: "agnoleti a uno a
uno, la Madona de San Bruno, de San Bruno in compagnia, a rosario bon Maria.
Agnoleti a dò a dò, la Madona de San Nicolò, de San Nicolò in compagnia, a
rosario bon Maria. Agnoleti a tre a tre, la Madona dei San Tre Re, dei San Tre
Re in compagnia, a rosario bon Maria. Agnoleti a quattro a quattro, la Madona
de san Marco…. E così via … zinque, sei, sette, otto, nove, diese, ecc.". Alla
fine dell'esibizione i bimbi chiedevano: "amate la canzone?" Se la risposta
era affermativa concludevano con: "tanti ciodi gavé sulla porta, tanti angeli
che ve porta", poi i vicini li facevano entrare e offrivano loro mandorle
caramellate, frittole, qualche pezzo di torrone, caramelle, ecc. Qualche volta
per scherzare i vicini rispondevano di no alla richiesta di gradimento della
canzone, in questo caso l'ultima filastrocca diventava: "tanti ciodi gavè
sulla porta tanti diavoli che ve porta, tanti travi gavè in cantina, tanti
diavoli che ve strassina". La storia si ripeteva per tante sere quante erano
le case del vicinato da visitare.
I giorno della vigilia di Natale era anche quello dedicato a
tramandare ai discendenti, figli, nipoti o anche fiozi (figliocci), l'arte, un
po' arcana, di far crisàt, ossia ottenere cose straordinarie con parole magiche
e misteriosi segni di croce, perché questo era il giorno in cui questi poteri
potevano essere trasferiti da una persona all'altra. In questo giorno si
insegnava infatti come distruggere con un segno di croce, fatto con una la
manèra (scure), un siòn o siùn (tromba marina) in mare, questo valeva
naturalmente per i marinai; si insegnava anche come guarire le distorsioni,
appunto con segni di croce, misteriosi intrugli e manipolazioni ed altre cose di
questo genere.
II dolce tradizionale di Natale erano le frittole: delle
frittelle fatte con un impasto precotto di farina, uva secca, pezzetti di mela,
e altri ingredienti, comunque erano buonissime.
Il piatto tradizionale della vigilia di Natale (Nanabàdgni)
era baccalà con polenta (una specie di stoccafisso alla vicentina). Il pranzo di
Natale era invece càrpize (letteralmente straccetti), ossia lasagne di pasta
fresca fatta in casa, con svazeto (sugo di carne) e carne di dindio (tacchino)
in umido, o di gallina faraona o agnello, con patate al forno e/o capuzzi garbi.
Durante il pranzo di Natale, per la gioia dei bimbi, si doveva ancora far cadìt,
ossia bruciare su delle braci messe in un piattino, l'incenso ricevuto in dono
dal frate, durante la benedizione annuale precedentemente descritta.
La sera dell'ultimo giorno dell'anno era dedicata al gran
ballo al "cinema": "Veglione" con elezione del re e della reginetta della serata
con cartoline e cotillons; il "Veglione" aveva lo stesso svolgimento di quello
già descritto per la festa di carnevale.
La mattina del giorno di capodanno, i bambini del paese si
attrezzavano con la più grossa mela cotogna (cugna) che potessero reperire, la
trapassavano con un ramo di rosmarino (rusmarin) e dopo la Messa Granda in
Duomo, andavano in piazza, quel giorno più affollata che mai, a passare di
crocchio in crocchio per augurare "bon prinzipio" (buon principio) agli astanti,
esibendo la mela cotogna; gli uomini contraccambiavano l'augurio infilando nella
mela un soldino. I bambini tornavano a casa all'ora di pranzo mostrando felici
il trofeo carico di monetine.
La cucina.
La cucina di Neresine può essere assimilata alla cucina
veneta, d'altra parte le prime popolazioni arrivate in paese oltre cinque
secoli fa, hanno dovuto adattarsi, certamente di buon grado, alle materie
prime che hanno trovato sul posto ed a proseguire e sviluppare le coltivazioni
esistenti. La base alimentare si è dunque orientata verso l'olio d'oliva,
abbondantemente prodotto, il vino, i cereali, i legumi, la carne di pecora e
di maiale, che ogni famiglia allevava, il formaggio pecorino, il pesce, ecc.
[56]
I piatti principali erano quindi:
- Il brodo di
carne in tutte le sue varianti (di pecora, castradina, gallina, ecc.)
prevalentemente con pasta fresca fatta in casa, ma anche con riso o pasta.
- Lasagne (càrpize) di grano tenero fatte in casa col vaiàlo
(mattarello), condite con svazèto (sugo di carne).
- La polenta in tutte le sue tante versioni: col sugo di
carne, col pesce in qualunque modo preparato, col latte, ecc. Un piatto molto
tipico era lo scrob, polenta semifluida cucinata nel brodo ottenuto con la
cottura dei residui del prosciutto ed eventualmente con l'aggiunta di costine
di maiale salate. (Il termine scròb è probabilmente di origine inglese, con
cui ancora oggi si chiama in quella lingua una polenta analoga, piatto tipico
dei marinai).
- Gnocchi di
patate conditi con svazeto.
- Il brudeto (sugo di pesce, corrispondente al brodetto
romagnolo e veneto) per condire polenta, pasta, lasagne, ecc. I pesci più usati
per fare il brudeto erano (e sono), in ordine di prelibatezza: i dolcissimi
calamari (lig'ne), la scarpena (cappone), un misto di scarpoch (scorfano),
bisibaba (prete), còcot (galinella), ragno (tracina); anche il brudeto di gronco
(gruh) era molto apprezzato. A proposito del brudeto de calimari, si faceva
molta attenzione durante la pulitura dei molluschi, di non rovinare, ma
conservare attentamente le preziose petùje, delle vescichette gelatinose e
trasparenti posizionate all'interno del corpo, verso la parte posteriore, perché
queste, versate nel brudeto durante la cottura, lo trasformavano in un delicato
squisitissimo condimento. Una delle raccomandazioni della nonna era: Dio guardi
(Buoh ciùvai) far el brudeto de calimari senza le petùje!
- I calamari con la bruoscva (verza o
cavolo), questo piatto è uno dei più tipici e prelibati, degno di fare la sua
bella figura nelle migliori cucine regionali italiane e non solo. Anche in
questo caso "Buoh ciùvai senza
petùje".
- Bùsara (una specie di brodetto un po' più diluito) di granchi
garmaì, di scampi o frutti di mare in genere, da accompagnare anche col riso
bollito.
- Agnello arrosto, tipico e squisito piatto di carne di agnello
in umido, fatto cuocere a fuoco lento per parecchie ore. L'agnello più ricercato
era quello del monte, ossia cresciuto negli aridi pascoli del monte Ossero,
perché ricchi di erbe aromatiche e di sale, portato dalle forti bore invernali.
Molto richiesto era anche quello di Tarstenik, piccolo scoglio a largo di
Puntacroce, ricco si salvia e di sale marino.
-
Capuzzi garbi (cavoli
conservati sotto aceto) con luganiga (calbassìzza) (salsiccia di maiale) o
altro pezzo di carne di maiale salata e affumicata.
-
Minestroni di legumi come: pasta efasioi, arricchiti magari con una
salsiccia o un pezzo di prosciutto o di porcina.
-
Minestre di ceci, fave, lenticchie e cicerchia (zìzeriza).
-
Risi e bisi, risi na cumpìru (riso e patate).
A proposito di risi na cumpìru, vale la pena raccontare un
simpatico aneddoto riguardante questa minestra, che era considerato piatto
povero e poco pregiato. Nei tempi della maggiore attività di produzione ed
esportazione di legname da ardere, due giovani di Neresine erano andati a
lavorare a giornata per caricare di legname in Draga (un posto (get) a Bora,
nell'isola di Cherso di fronte al paese) una nave di romagnoli. Nel contratto di
lavoro era previsto che ai caricatori fosse fornito il pranzo di mezzogiorno a
bordo, mentre la sera sarebbero ritornati a casa col caicio. I due giovani
durante la giornata di lavoro hanno fatto amicizia con l'equipaggio della nave,
la sera quindi sono stati invitati a rimanere a cenare con loro e stare ancora
un po' in compagnia. Hanno chiesto cosa ci fosse per cena e avendo saputo che
c'era minestra romagnola, hanno deciso di restare, dicendo tra loro: "piuttosto
che tornar a casa e magnar quei soliti prochieti (maledetti) risi na cumpiru, per
una volta cambiemo e magnemo minestra romagnola ", che poi alla fine si è
rivelata i soliti detestati risi na cumpiru.
[57]
Veniva fatto largo uso di carne di maiale salata e affumicata,
che si conservava in baie di legno (tigne), una specie di piccoli tini a forma
di tronco di cono. Le parti più pregiate erano naturalmente i prosciutti
lavorati alla dalmatinska (al modo dalmatico) e il lombolo (luòmbul), filetto
di maiale salato ed affumicato, una specie di coppa. Degne di menzione sono le
ciriève: trippe salate e affumicate, ricavate dall'intestino tenue del maiale,
che si mangiavano d'inverno arrostite sulle bronze (braci) del
fogoler.
Nel periodo invernale si mangiava frequentemente la bruoscva
(verza) e la blitva (bietola), ed anche la polenta con brudeto di seppia (sepa o
sippa) o polpo (folpo o cobuòdniza) salati e seccati al sole, poi bagnati per
qualche tempo per ammorbidirli, prima della cottura. A proposito di cobuòdniza,
questo termine dialettale viene usato nel gergo quotidiano per definire uno
bagnato fradicio (bagnado come una cobuòdniza, oppure ti gà ciapà una
cobuòdniza, o anche in dialetto slavo, mokar kako cobuòdniza), dalla
consuetudine di mettere a bagno per qualche tempo ifolpi secchi, prima di
cuocerli.
Un piatto tipico estivo che si mangiava spesso la sera erano
le patate bollite con radicchio crudo, il tutto mescolato insieme e condito con
olio e aceto, accompagnate con pesce fritto o alla griglia, o anche con le
sardele salade (alici
salate). I pesci più usati in questo piatto erano le squisitissime maride o
mènule di Rìduia, forse uniche al mondo con quel sapore, dette anche
scherzosamente luganighe lussignane.
Nel periodo estivo ogni famiglia preparava il concentrato di
salsa di pomodoro occorrente per il fabbisogno della cucina di casa. Si
raccoglievano i pomodori maturi, si strizzavano con degli stracci bianchi a
maglia larga per trattenere le bucce ed i semini, ed il liquido mescolato con la
polpa e opportunamente salato, veniva distribuito sulle dasćìzze, ossia su dei
contenitori rettangolari fatti di tavola di legno, lunghi circa un metro, larghi
una quarantina di centimetri e alti circa tre centimetri, e si mettevano a
seccare al sole, rimescolando ogni tanto l'impasto, a mano a mano che si
addensava. Alla fine la salsa, una pasta densa di colore rosso scuro, veniva
raccolta per la conservazione nei bozoni, vasi di vetro con relativo tappo
smerigliato a tenuta ermetica. Nel solleone di agosto i muretti dei cortili
delle case del paese erano pieni di dasćìzze di salsa, ed
i ragazzini, correndo per i loro giochi sù e giù per gli stuagni, non potevano
fare a meno, passando vicino, di dare una ditata nella salsa per succhiarsi la
deliziosa crema, inseguiti dagli urli e improperi delle padrone di casa.
Stranamente i funghi, che crescevano e crescono abbondanti,
non venivano considerati commestibili, anche se sono presenti numerose varietà
molto pregiate come: i marzuoli, abbondanti nel periodo invernale, i galletti ed
i chiodini. Anche se meno pregiati, si trovano pure i prataioli, le mazze di
tamburo e le colombine. Non sono presenti i funghi porcini. anche se sono
abbondantissimi i porcinelli.
I dolci tipici, come già detto in altra parte, erano:
lefritole nelle feste natalizie, i crostoli per carnevale e le pinze per Pasqua.
Nei tempi più antichi nelle pinze veniva messo, per dare colore e un particolare
gradevole sapore, dello zafferano (saffruàn), che veniva coltivato negli orti
vicino casa; anche questa usanza tipica di Neresine è andata perduta. Per tutte
le stagioni andavano bene lo strudel di mele (prevalentemente mele cotogne) le
palacìnche (una specie di crepes) ripiene di un impasto fatto di ricotta, cacao
e zucchero oppure di marmellata, possibilmente anche questa di mele cotogne
fatta in casa. Tra i dolci vanno anche ricordati i kifeli, un tipo di fritelle
fatto con un impasto dolce di patate, di forma affusolata, variamente incurvate
(probabilmente di origine austriaca). Devono essere ricordate anche le più
antiche ulìta nadègniene (trippe riempite, gonfiate), si trattava di riempire
l'intestino grosso del maiale ed anche della pecora, con un impasto dolce di
farina e uova, simile a quello delle frittole, contenente uva passita, pinoli,
mandorle, ecc., ne veniva fuori una specie di grosso salame, che si faceva
cuocere per un certo tempo in una grossa pentola e poi poteva essere mangiato in
fette belle calde, oppure conservato e mangiato nel tempo, tagliato a fette e
arrostito sulla brace od anche riscaldato in altro modo, anche in frittura.
[58]
Degne di menzione sono le grosse olive nere chiamate guórcule
(amarognole), cotte al forno in apposite teglie, cosparse con abbondante
zucchero.
Un altro dolce, di introduzione più recente, ma diventato
tradizionale dalla fine del XIX secolo, erano "le fave dei morti", probabilmente
introdotto dall'area triestina ed istriana, ma comunque immancabile appunto nel
periodo delle celebrazioni dei defunti e della festa patronale della Madonna
della Salute, il 4 novembre. Erano dei pasticcini variopinti, fatti di pasta di
mandorla, in forma di grosse fave, tuttora diffusi in tutta la parte italiana
dell'Adriatico settentrionale, e di cui ogni famiglia non poteva fare a meno nel
periodo delle festività autunnali.
Un piccolo approfondimento lo merita il
pane, da sempre alimento
fondamentale. Il pane, fin dalle prime origini del paese veniva fatto in casa,
ed ogni casa, o gruppo di case, aveva il proprio
forno. Nei tempi più
antichi il forno era costruito in robusta muratura all'esterno della casa, in un
angolo del cortile, ed aveva forma di piccola torre con l'apertura ad altezza
d'uomo ed il tetto spiovente di coppi, ed era completo di alto camino, che si
stagliava nella parte anteriore. Il forno antico aveva l'aspetto di una
chiesetta in miniatura, coll'alto comignolo che sembrava un campanile. Un antico
proverbio in dialetto slavo, per indicare comportamenti molto primitivi, diceva:
"chi ni nicad zriecvu videl, i na pećè se clagna" (chi non ha mai visto una
chiesa, si inchina anche davanti ad un forno). Successivamente, con la
costruzione delle nuove case i forni sono stati spostati all'interno, in cucina
o in baraca. Il pane si faceva generalmente una volta alla settimana, veniva
impastato in apposite madie (copànize) o nello smur (madia rettangolare a fondo
arrotondato, ricavato scavando un grosso mezzo tronco d'albero), e confezionato
in forma di struzze o colùbe (grosse pagnotte), con farina appena macinata,
ricavata dal grano coltivato nei gorghi (tieghi) del paese. Alcune struzze
venivano tagliate in fette e biscottate diventando le passamète. Le passamète
erano mangiate nell'ultima parte della settimana e venivano date agli uomini da
mangiare per merenda (jùsina) col formaggio, quando andavano a lavorare in
campagna, erano più adatte per essere portate nel rùssak
(zaino) di tela assieme agli attrezzi (spone, sfilazzi, òbruci, òglavize,
ecc.) e l'immancabile botiunich di
bevanda (bevuanda). Il botiunich era una bottiglia rivestita di tarnela,
ossia ricoperta da un fitto intreccio di trefoli di corda catramata, che forniva
un isolamento termico ed una protezione contro eventuali urti. Dallo stesso
rivestimento si ricavava anche una robusta maniglia, intrecciata con la stessa
corda, per il più agevole trasporto. Il botiunich ed il più grosso botiun, erano
i caratteristici recipienti dei marinai, utilizzati per trasportare piccole
quantità di vino o miscela di vino e acqua, appunto la bevanda.
Le passaméte erano anche molto usate per fare merenda con "la
soppiza", ossia per essere inzuppate in un mezzo bicchiere di vino arricchito di
zucchero e mangiate col buon formaggio pecorino. Per fare il pane bisognava
macinare il grano per ottenere la farina, quindi ogni stuagne aveva almeno un
impianto di sarne (la esse va pronunciata dolce), ossia le macine. Le sarne
erano costituite da un robusto telaio di legno, costruito su due piani: sul
piano superiore, ad altezza d'uomo erano montate due coppie di grosse pietre
rotonde, del diametro di circa 60 centimetri l'una, messe una sopra l'altra. La
pietra inferiore era fissa e portava al centro un perno rigido di legno,
rastremato a forma conica, regolabile in altezza con un ingegnoso sistema di
cunei montati nel piano inferiore, mentre quella superiore, che era forata al
centro con un buco di circa 10-12 centimetri di diametro, poggiava sul perno
della pietra inferiore tramite una traversa-cuscinetto di legno duro, in modo da
poter ruotare senza attrito. La pietra superiore aveva incastonato sul lato
esterno della circonferenza una specie di maniglione forato di ferro, in cui si
infilava un lungo bastone opportunamente sagomato, tramite il quale si faceva
girare a mano la macina. La macinatura del grano era effettuata mettendo in
rotazione la pietra superiore, versando, a mano a mano che la macinatura aveva
corso, i chicchi di grano nell'apposito foro. Il grado di finezza della farina
era determinato regolando in altezza il perno fisso, attraverso gli appositi
cunei del piano inferiore. Di solito l'impianto di sarne era costituito da due
gruppi di macine: una per ottenere la farina per fare il pane e l'altro per
quella di granoturco (farmenton ofarmentun) per fare la polenta.
[59]
Il lunedì mattina, giorno in cui solitamente si faceva il pane,
tutto il paese era inondato dal caratteristico buon profumo del pane fresco.
Oltre al pane, altri prodotti da forno erano: le pinze già
dette, ilpan de Milan, una specie di pagnotta dolce intrecciata a forma di
treccia, fatta con un impasto somigliante a quello delle
pinze, il paprégnak, squisito
pane impastato con acqua e miele (di solito l'acqua di lavaggio dei telai delle
arnie dopo l'estrazione del miele), il pane impastato con pezzetti di fichi
secchi e la loìniza, ossia pane impastato col grasso (luòi) di maiale ed anche
di pecora.
Come non parlare a questo punto dei
fichi! Il mite clima marittimo
delle isole e la lunga siccità estiva creavano le condizioni ideali per la
crescita spontanea degli alberi di fico, e in paese infatti ce n'erano ovunque:
negli orti, nelle vigne, nei terreni di pascolo, perfino nei megnizi e non
richiedevano alcuna particolare cura, tranne la raccolta dei frutti maturi.
Fondamentalmente c'erano quattro qualità di fichi: le carcgne, le belizze,
lepetruofque e le ciarnique.
Le carcgne erano (e sono) fichi giallo-verdi di pasta rossa,
dolci e buoni, ed erano quelli più diffusi perché si prestavano per essere
essiccati al sole sugli appositi bàraz, che erano dei grossi telai di legno, su
cui erano distese delle stuoie di sottile canna (le stùrize o stùrich),
particolarmente adatte per l'essiccazione dei fichi. I bàraz erano anche dotati
di una robusta copertura di tela impermeabile, fatta a forma di tetto spiovente,
che la mattina veniva aperta per lasciare che il sole svolgesse liberamente
l'importante funzione dell'essiccamento, mentre la sera, al tramonto, veniva
chiusa, per evitare l'entrata dell'umidità della notte. La copertura del bàraz
veniva chiusa anche di giorno, in caso di pioggia, anzi in caso di minaccia di
pioggia, le donne correvano a casa per coprire, con priorità assoluta il baraz,
poi provvedevano a recuperare la capra, di solito pascolante nei dintorni e
portarla nel cotaz (casetta ricovero), ed infine portare in baraca, o comunque
in un posto asciutto le frasche ed i legni occorrenti per il fuoco di casa.
Attività consueta di tutti i bambini del paese, nel periodo dell'essiccamento
dei fichi, era l'infilarsi sotto il bàraz per raccogliere col dito e leccare la
dolcissima goccia di medo (miele), il mieloso liquido che fuoriusciva da ogni
fico. In questa operazione i ragazzini finivano inevitabilmente per toccare con
la testa lo stùrich grondante appunto di medo, per cui in questa stagione
avevano sempre i capelli appiccicosi per l'accidentale contatto col liquido
zuccherino.
I fichi, una volta essiccati, erano conservati in grossi
cassoni di legno (scrigne), distendendo sul fondo della cassa, prima uno strato
di foglie di alloro, poi uno strato di fichi secchi, poi un altro strato di
foglie, e ancora uno strato di fichi e così via fino al riempimento della cassa,
poi il tutto veniva pressato con pesanti pietre e lasciato a stagionare per
l'inverno. Durante la stagionatura i fichi si ricoprivano di uno strato di
bianco zucchero, tanto da sembrare infarinati. Nel periodo invernale erano il
companatico buono per ogni occasione, erano utilizzati nel caffelatte,
naturalmente caffè d'orzo, per la colazione della mattina, al posto dello
zucchero: un pezzetto di fico ed un cucchiaio di caffelatte. Nelle fredde
mattine invernali gli uomini gradivano, per scaldarsi, sorbire un bicchierino di
grappa (rachìa) accompagnato con trequattro fichi secchi; poi prima di uscire,
non mancavano di portare con se nel russak, assieme alla merenda (perjùsina)
anche un sacchetto di fichi. I ragazzini d'inverno avevano sempre le tasche dei
pantaloni irrigidite da uno strato di zucchero che si formava all'interno, per
il tenere sempre dei fichi secchi in tasca, assai spesso rubati di nascosto dal
cassone di famiglia, custodito nella soffitta di casa.
Per variazione si facevano con gli stessi fichi secchi i
pandefighi (smoqvégnazi); di solito venivano utilizzati quelli "meno ben
riusciti", si macinavano con la macchina tritacarne e si impastavano con della
grappa e semini di finocchio selvatico, confezionandoli in forma conica; anche
questi, dopo una stagionatura in soffitta, posati sopra una grossa foglia di
fico, venivano mangiati d'inverno, tagliati a fettine; erano comunque una
squisitezza, specialmente nelle fredde giornate de fortunal de bora,
accompagnate anche con la grappa.
Le belizze erano fichi gialli, di pasta gialla, dolcissimi,
anche questi erano seccati al sole nel bàraz, in questo caso però erano tagliati
a metà e aperti per evitare l'eventuale fermentazione, visto il loro altissimo
tasso zuccherino. Da secchi si chiamavano polussìći
(gemelli), con cui venivano ancora
[60] fatti dei pandefighi: i polussìći venivano impilati e pressati in apposite forme
si legno a forma di larghe tazze, chiamate ciàssize, leggermente inumiditi con
succo d'uva, grappa, e aromatizzati con semini di finocchio ed altri
ingredienti, poi dopo la consueta stagionatura in soffitta erano pronti da
mangiarsi a fettine. Questi pandefighi erano i più buoni e ricercati, ma
venivano dati ai bambini con parsimonia, perché erano riservati per le grandi
occasioni, feste di Natale e capodanno, importanti ricorrenze famigliari, ecc.
(Assomigliavano un po' al panforte senese, ma assai più buoni!).
Le petruòfque erano grossi fichi bruni a pasta rossa, molto
prelibati, si mangiavano soltanto freschi come frutta, sia in giugno sotto forma
di fior di fico e sia in settembre.
Le ciarnìqve erano fichi di color bruno scuro e di più piccole
dimensioni, anche questi erano molto dolci e si mangiavano solo freschi.
Sia le petruòfche che ciarnìqve erano meno coltivate perché i
loro frutti non erano adatti per essere essiccati, quindi per l'economia delle
famiglie quello che non poteva essere conservato per l'inverno aveva meno
pregio.
I soprannomi.
Tra gli usi tradizionali va menzionato anche quello dei
soprannomi; infatti, tutte le persone del paese erano e sono individuabili con
un soprannome di famiglia o individuale. Questa usanza col tempo è diventata
una necessità vera e propria, perché il paese si sviluppò nei secoli partendo
da pochi ceppi famigliari di origine, senza scambi matrimoniali con i paesi
vicini, quindi nel corso degli anni tutti gli abitanti si sono trovati a
condividere i pochi cognomi disponibili, circa una diecina. Inoltre, siccome
la tradizione vuoleva che i discendenti portassero prevalentemente i nomi
degli antenati, che non si discostavano dai comuni Giovanni, Francesco,
Domenico, Antonio, Giuseppe, ecc., si è verificato che parecchie diecine di
persone portavano lo stesso nome e cognome, da qui l'esigenza di trovare un
più facile modo di riconoscimento, ricorrendo appunto ai soprannomi. I primi
soprannomi facevano riferimento al nome proprio di un capostipite
generazionale, come: Pierovi da Pietro, Blasìcevi, da Biagio, Marchìcevi da
Marco, Antuògnovi da Antonio, Rocchìcevi da Rocco, Roccovi da altro Rocco,
Costantìgnevi da Costante, Eujègnovi da Eugenio e così via. Coll'aumentare
della popolazione e la ulteriore proliferazione sempre degli stessi nomi, è
stato necessario passare ad altri riferimenti come: Zìzzericevi da cicerchia,
Bòbari da bob (fava), Barbarossovi da barba rossa, ecc.
In molti casi, a partire dal 1920, i soprannomi sono stati
trasformati in nuovi veri e propri cognomi. I principali soprannomi di Neresine
sono elencati nell'allegata
appendice "A".
I mezzi di trasporto.
Vale la pena di parlare dei mezzi di trasporto
utilizzati in paese per la loro tipicità. Il più importante e diffuso era la
piccola barca, il cosiddetto
caìcio (caìch),
nome comunemente usato nella zona costiera del versante orientale
dell'Adriatico, fino alla Turchia, per definire questo tipo di imbarcazione.
Il caìcio di Neresine era ed è una robusta barca in legno a poppa quadra,
abbastanza larga, di lunghezza variabile da 4,5 fino a 6 e più metri,
particolarmente adatta per la navigazione a vela, prevalentemente dotata di
scafo, ossia una specie di coperta che copre circa la metà anteriore della
barca. Oltre ai caìci c'erano anche le
batele, barche
leggere molto maneggevoli, utilizzate prevalentemente per la pesca. Le
batele erano barche a fondo piatto, di lunghezza variabile attorno ai
quattro metri, senza coperta, adatte per la navigazione a remi, molto
probabilmente derivanti dalle analoghe barche della laguna veneta, aventi lo
stesso nome.
Data la natura impervia delle isole del Quarnero e la
conseguente difficoltà di costruire strade, la barca era diventata il principale
mezzo di trasporto, particolarmente per gli abitanti di Neresine e di S.
Giacomo. Infatti, tutte le terre della parte sud dell'isola di Cherso, la
cosiddetta Bora, erano diventate di loro proprietà, quindi per attraversare lo
spazio di mare che divide le due isole, il Canal (Conual), con un percorso da
uno a tre-quattro miglia, a seconda del punto dove si doveva approdare, era
gioco forza utilizzare la barca, conseguentemente quasi ogni famiglia ne aveva
una propria.
[61] Il mare chiuso e poco ondoso del Canal, perché protetto da tre
lati e le caratteristiche di buona ventosità dell'area, avevano facilitato la
diffusione della vela quale mezzo di propulsione, di cui tutti gli abitanti
erano diventati esperti utilizzatori.
L'uso intensivo delle barche ha portato all'esigenza di
trovare un posto sicuro dove ormeggiarle, sono quindi stati costruiti dai
Neresinotti, con un lavoro enorme, tanti porticcioli e moli di ormeggio un po'
ovunque.
Nel paese sono stati costruiti i porticcioli dei Frati, di
Biscupia e di Ridimutac per gli abitanti di Halmaz. Ridimutac (fango ridente)
era una bellissima insenatura sovrastata da alto bosco, a fondale in parte
sabbioso ed in parte fangoso, in cui sfociava una sotterranea sorgente d'acqua
dolce. In questi porticcioli ciascuna barca aveva il proprio individuale
ormeggio, con regolare corpomorto fisso e relativo gavitello. Gli ormeggi
venivano tramandati, come una proprietà privata, di generazione in generazione
nelle stesse famiglie. Oltre ai porticcioli in paese, sono stati costruiti moli
di attracco e ormeggi sicuri in tutti gli approdi di Bora, da quelli in Pod
Brùaide (baia sud di Ossero), Podolzì, Mociuàvni (baia di Sonte), Sonte, Scoìc,
Stenìzze, Pinzinića mul, Draga, Rìduie, Sesnúa, Maiescúa, con annessa casetta
per ripararsi dalla pioggia in caso di temporale (neviera), Caldonta,
Martinsćiza, Galbociza, Biela Vala, fino a Puntacroce e oltre. Anche i
Sangiacomini hanno dato il loro contributo nella costruzione dei vari approdi
per le barche, sono nati così i porticcioli di S. Giacomo, Lanena, e moli di
attracco in Buciagne, Veli Buok, Lucizza, ecc.
Nei caìci venivano anche trasportate da una sponda all'altra
le pecore e perfino gli asini ed i muli. Lo scafo dei caìci era particolarmente
adatto per far salire con facilità le pecore a bordo e poi alloggiarle sotto lo
stesso scafo durante la navigazione, particolarmente utile quando per vento più
intenso la barca navigava inclinata su un fianco sotto la spinta della vela.
Altri mezzi di trasporto importanti erano il
mulo e l'asino
(tovuár); va precisato che nel dialetto italiano del paese il
mulo era chiamato cavalo e in quello
slavo cuógn (appunto ancora cavallo); tutti i trasporti terrestri venivano fatti
a dorso di questi utili animali, quindi anche le varie attrezzature per il
trasporto dei materiali erano costruite in funzione di questo tipo di vettore.
Quello principale era il basto o crosgna, su cui si caricavano legna, frasche,
pecore ed agnelli, ed ogni altro tipo di mercanzia di consistenza solida, ed era
anche adatto per fare stare agevolmente seduto l'uomo in groppa. Sui basti
venivano applicati anche particolari accessori, come le cuònche o conche, dei
contenitori fatti a cassone, col fondo apribile per scaricare in terra il loro
contenuto, opportunamente sagomati per adattarsi all'anatomia dell'animale:
erano usati per il trasporto di materiale alla rinfusa come letame, pietre,
sabbia, terra, calce viva, ecc. Per il trasporto di liquidi, specialmente acqua
e vino, erano usate le batalúghe, piccole botti di
legno a sezione ellittica, di circa venti o trenta litri di capacità, adatte per
essere caricate sui basti dell'asino o del
mulo. Per i liquidi veniva anche
utilizzato il ludro o mieh, otre ricavato dalla pelle della capra o pecora. Il
ludro era uno dei contenitori tradizionali per il trasporto dell'uva raccolta
durante la vendemmia.
Gli animali da soma erano intensamente utilizzati per il
trasporto di legname, dai boschi di taglio, posti anche al centro dell'isola,
fino al mare, dove veniva imbarcato sui motovelieri da carico del paese.
Quest'attività si chiamava sumisár o in dialetto slavo gonìt. Il legname da
ardere era chiamato ifassi, ossia dei pezzi di rami tagliati di lumghezza
standard di circa un metro e diametro da 3 fino a 5 - 6 centimetri, mentre
quello di dimensioni piu grosse era chiamato i mureli. Il legname veniva poi
accatastato in uno spiazzo, preventivamente preparato, in riva al mare,
nell'attesa di essere imbarcato. I posti prescelti per la caricazione non sempre
erano adatti per l'attracco delle navi, anzi quasi mai, per motivi di basso
fondale o secche rocciose particolarmente pericolose, quindi inaccessibili dal
mare per i grossi bastimenti. I posti d'imbarco del legname aventi queste
caratteristiche, erano chiamati ghet (da ghetto, luogo chiuso, inaccessibile).
Per caricare il legname nel ghet, era quindi stata escogitata una particolare
tecnica: la nave veniva saldamente ormeggiata in fondale sicuro, con ancore a
prua e poppa e cime a terra, ma distante da riva, a volte anche più di 50 metri,
poi venivano messi dei lunghi ponti per raggiungere terra, ossia delle grosse
tavole di legno, lunghe circa 15 metri, larghe circa 40 centimetri e spesse 5-6
centimetri. Quando la distanza da terra
[62]
superava la lunghezza della tavola (ponte), si faceva un ponte di barche, con
una o due caici che fungevano da piloni. I fassi venivano accatastati su uno
smurìch e direttamente pesati a terra sul dezimàl (grossa bilancia), quindi
portati in spalla a bordo dai caricatori, quasi sempre gli stessi marinai di
equipaggio della nave, costretti a camminare veloci sul flessibilissimo ponte,
il che richiedeva da parte dei portatori anche il possesso di alte doti
equilibristiche. L'unità di misura di ogni smurìch di fassi era la mièra
(misura), ossia circa 50 chili. La contabilità del legname caricato era
effettuata da due persone contemporaneamente, una per conto del proprietario del
legname e una per conto dell'armatore della nave. Ogni mièra era marcata con una
barretta verticale su un apposito quaderno, ogni quattro barrette verticali
erano sbarrate con una quinta trasversale al grido di "sbarra", quindi ogni
gruppo di barrette sbarrate corrispondeva a cinque mière, alla fine del carico
si contavano le sbarre e quindi la quantità di legname imbarcato. Tra le vecchie
carte ritrovate ci sono delle ricevute di imbarco di legname per oltre 3000
mière di fassi, riguardanti alcuni proprietari. Un altro mezzo di trasporto
importante era il caro coi manzi (carro trainato dai buoi). Il carro di Neresine
era del tipo a quattro ruote, molto lungo e stretto, atto per passare nei clanzì
(singolare clanaz), le tipiche strette strade di campagna delimitate da entrambi
i lati da masiere, e per percorrere gli stretti ed impervi sentieri lungo i
boschi dell'isola; era molto pesante e robusto, costruito con grosse travi di
legno e alte sponde laterali, formate da barre di legno di ginepro, atte per
contenere i carichi più voluminosi. Il carro veniva adoperato per i trasporti a
lunga distanza, specialmente del legname, dai boschi di taglio fino ai posti di
imbarco in riva al mare, ed aveva una portata anche superiore ai dieci quintali.
Nei periodi di lunga siccità estiva, il carro veniva usato per portare l'acqua
potabile alle pecore nelle varie campagnre di Bora, prelevandola dai pozzi di
Ossero e addirittura dal pozzo in piazza a Neresine, con percorsi a volte anche
superiori a 15 chilometri. Nei tempi più antichi il carro era l'unico mezzo di
trasporto terrestre di grandi partite di merci tra i vari paesi delle isole, non
era infrequente la necessità di viaggi a Cherso, ad oltre 50 chilometri di
distanza ed a Lussino (20 chilometri). I carri erano posseduti tuttavia solo
dalle poche famiglie dei grandi proprietari terrieri, perché richiedevano anche
il possesso di due robusti manzi (buoi) per il loro trascinamento, quindi
esistevano solo tre o quattro carri, che comunque coprivano le necessità del
grande trasporto per tutto il paese. Le famiglie che possedevano i carri e
relativi buoi, erano: i Gaetagnevi (Bracco), i Casteluagnevi
(Soccolich-Castellani), i Maurovich de Cluarich ed i Menisićevi
(Zorovich-Menesini).
Tra i mezzi di trasporto vanno ricordate anche le civiéra.
Erano delle portantine di legno di ginepro, sagomate in modo da essere
trasportate da due persone, una davanti e l'altra di dietro, con cui venivano
effettuati i trasporti pesanti a mano di breve distanza.
La copàniza era un contenitore di grandi dimensioni di forma
rettangolare svasata, costruito con tavole di legno, avente, come le civiéra,
quattro impugnature per il trasporto con due persone. Le copànize erano anche
adoperate per fare il pane (come madie) e per il lavaggio e pulitura del maiale,
quando veniva ammazzato (copado), prima della macellazione. Lo smurìch (non ha
termine in italiano, forse conca?) già menzionato, come lo smur precedentemente
visto, era un contenitore leggero, rettangolare a fondo arrotondato, ricavato
scavando un mezzo tronco d'albero, adatto ad essere portato a spalla dagli
uomini o sulla testa dalle donne. (Quando verso la fine del XIX secolo i frati
croati avevano abolito la lingua latina ed italiana in alcune cerimonie
religiose, gli abitanti di Neresine che non avevano accettato la cosa, portavano
a battezzare a Ossero i neonati, accomodandoli proprio nello smurìch, portato in
equilibrio sulla testa dalle donne).
Altri contenitori tradizionali erano i cossìći e le còfe. I
cossìći erano dei robusti cesti di vimini, costruiti artigianalmente in casa,
dotati di una rigida maniglia di legno (proveslò) di frassino, opportunamente
sagomata, ed erano di varie dimensioni; quelli più grandi erano utilizzati per
la raccolta delle olive, dell'uva durante la vendemmia, per la raccolta dei
fichi, ecc., quelli più piccoli per tutti gli usi possibili. Un antico proverbio
molto usato diceva: "ne hfalìse cossìće da ima novo proveslìće" (non decantare
il cesto se ha la maniglia nuova), per dire che non basta sostituire una piccola
parte ad un pezzo vecchio, per averne uno completamente nuovo. Le cofe (ceste)
erano invece delle grandi ceste di vimini, più leggere dei cossìći, di forma
ovale, dotate anch'esse di robusta maniglia
[63] di vimini intrecciati e di due coperchi superiori, incernierati sulla
trasversale della maniglia. Le cofe erano generalmente utilizzate per la
conservazione del pane o altri generi alimentari che richiedevano una certa
aerazione.
La pesca.
Nella vita di Neresine la pesca è certamente un argomento
degno da essere ricordato perché il mare circostante era pescosissimo e perché
il pesce è stato, per lo meno dalla fine del XVIII secolo in poi, un
importante mezzo di sostentamento per la popolazione, specialmente nei periodi
di maggiore siccità e quindi di carenza alimentare.
Comunque, contrariamente agli abitanti dei paesi di Ossero,
Lussingrande e di Cherso, tra i quali la professione del pescatore era
abbastanza diffusa, a Neresine non ci sono mai stati veri e propri pescatori
professionisti, ciò è probabilmente dovuto al fatto che la grande pescosità del
mare prospicente il paese consentiva ad ognuno di provvedere direttamente, ad a
"tempo perso" al fabbisogno proprio, del parentado ed anche del vicinato; non
solo, ma certamente anche l'attività marittima commerciale a cui il paese si è
sempre intensamente dedicato, ha indirizzaro la popolazione verso la professione
del marinaio, assai più remunerativa, piuttosto che a quella del pescatore.
Addirittura nei pregiudizi del sentire popolare paesano, il pescatore de mestier
era diventato sinonimo di persona pigra (trisćeni), perdigiorno, uomo con poca
voglia di lavorare.
Tornando alla pesca vera e propria, nel periodo invernale la
pesca prevalente era quella dei calamari (ligne) e delle seppie (sippe),
generalmente effettuata dai ragazzi, che provvedevano al fabbisogno dei
famigliari e del vicinato. c'è un vecchio adagio in dialetto slavo che a
proposito della pesca delle seppie dice: "februaj sippe na cruàj, muàrća
odavuànza, avrilapreco rila, maja na capìtul", ossia: febbraio le seppie a
terra, marzo ce n'è d'avanzo, aprile fino alla nausea, maggio tutto finito. Si
racconta ancora oggi che in primavera, durante la stagione della mungitura delle
pecore, c'erano delle donne, cinque o sei, che andavano a mungere le pecore
nella campagna circostante la baia di Sonte, di fronte al paese. Si erano ben
organizzate e con una grossa batela, (quella del Iviza), a remi se ne andavano
tutti i giorni su e giù per il canale per effettuare la mungitura. Arrivate sul
molo (mulìch) di Sonte, ormeggiavano la batela e ognuna per proprio conto se ne
andava verso la propria campagna a radunar (vagnát) le pecore, poi ritornavano
con le "latte " in testa piene di latte verso la barca. Quelle che ritornavano
per prime, mentre aspettavano le altre, "raccoglievano" seppie con le mani nel
basso fondale, dove i molluschi si raggruppavano per la riproduzione e poi
ritornavano a casa col latte e con le seppie: da mangiare per tutti.
Le seppie ed i polpi (cobuòdnize) venivano anche pescati con
delle grosse nasse (varse) di vimini, che, mentre si andava su e giù per il
canale per recarsi a Bora per lavoro, si lasciavano cadere qua e là sul fondo
del mare, per poi al ritorno ritirarle su, per mezzo del dracmarìć (rampino),
piene di molluschi. Non avendo in quei tempi né frigoriferi, né un mercato dove
venderle, si salavano un po' (sia seppie che polpi) e si facevano seccare al
sole, per poi mangiarle d'inverno. In quel tempo, durante la stagione della
pesca delle seppie i moli dei vari porticcioli del paese erano sempre tutti
anneriti dall'inchiostro dei molluschi pescati.
Un'altra pesca tipica del periodo primaverile era quella dei
granzi (le squisite granzievole), si pescavano prevalentemente nella baia di
Ossero, ce n'era una tale abbondanza che quelli che li pescavano stentavano a
venderli, così per riuscire a smaltirne qualcuno di più, escogitarono il sistema
di cuocerli in grossi barili di lamiera e venderli nella piazza del paese già
cotti. Durante l'estate era abbondante e facile la pesca degli sgombri: mentre
si andava con la barca a vela a Bora per lavoro, si filava a mare la lenza a
traino (pànola), usando come esca un pezzetto di stoffa bianca, e nel breve
percorso si riusciva a pescare il fabbisogno della famiglia. Una attività di
pesca molto praticata, perché anche divertente, era quella di luminar (svetìt)
col pétromas (dal nome del marchio di fabbrica dell'attrezzo) a petrolio (la
lampara) e le fiocina, si faceva tutto l'anno, nelle notti di bonaccia e senza
luna. Si installava sulla prua di una batela il pétromas acceso, e vogando
silenziosamente si perlustrava il fondale lungo la costa a tre o quattro metri
di profondità, fiocinando tutti i grossi pesci che si incontravano, fermi e
abbagliati dall'improvvisa
[64]
intensa luce. Questa era una pesca molto proficua perché si prendevano grossi
pesci pregiati come, orate (podlànize), branzini, scarpène, fruànculi (saraghi
S. Andrea), pizzi (saraghi pizzuti), serghi (saraghi reali), cavai (corvine),
ecc.
I ragazzi, specialmente nei tempi più antichi, andavano a
luminar da terra camminando sugli scogli (cràjen muora), utilizzando come fonte
luminosa un ramo di ginepro (smreca) ardente e la sabra, ossia una specie di
spada con sulla punta un uncino. Quando si scorgevano, nei piccoli specchi
d'acqua tra gli scogli, dei cefali (ćifli), si dava una sciabolata nell'acqua
ritirando contemporaneamente verso sé la sabra, nel cui uncino rimanevano
agganciati i pesci. Successivamente, con l'evento delle nuove tecnologie, il
ramo di ginepro ardente fu sostituito da una lampada "a carburo" e la sabra con
una piccola e molto acuminata fiocina. In questo modo, oltre ai cefali si
prendevano anche gli squisitissimi granchi garmaì e qualche belfolpo, che di
notte andava anche lui a caccia di granchi tra gli scogli.
Vale la pena di raccontare anche la pesca con la ságoniza (da
pronunciarsi con la esse dolce di rosa). Questo tipo di pesca veniva fatto nella
buona stagione: si partiva la mattina di buon'ora con due o tre barche ed una
diecina di uomini. Si sceglieva una opportuna baia, possibilmente sabbiosa, poi
si calava, a tre o quattrocento metri a largo della baia prescelta, una corda
lunga anche oltre 1000 metri, opportunamente zavorrata in modo che andasse sul
fondo, su cui venivano intrecciati ogni cinque o sei metri dei gruppi di foglie
secche di pannocchie di granoturco, con l'intenzione con queste di spaventare i
pesci. Nella stessa corda venivano legati ogni trenta o quaranta metri delle
sagole alla cui estremità si fissava un gavitello galleggiante. Poi si calava
sul basso fondale vicino alla spiaggia, in un posto opportunamente prescelto,
una grande rete distesa sul fondo e gli uomini da terra incominciavano a tirare
la corda, prima da una estremità e poi dall'altra, con l'intenzione di riportare
a riva la corda e tutto il pesce che si venisse a trovare all'interno. Il
capopesca da una barca al largo sorvegliava il funzionamento della corda
impartendo ordini a voce a quelli di terra. Quando quelli di terra si
accorgevano che la corda faceva molta resistenza al loro tiro, davano
segnalazione al capopesca che provvedeva a salpare ad una ad una le sagole con i
gavitelli, finché non trovava il punto in cui la corda si era incocciata in
qualche grotta e poi la liberava, così il tiro riprendeva. L'operazione durava
parecchie ore prima che tutta la corda fosse salpata. Alla fine quando l'ultimo
pezzo di corda era arrivato nella rete precedentemente predisposta, si tiravano
su i lembi della rete con tutto il pesce dentro. Con questo tipo di pesca si
riusciva a raccogliere anche qualche quintale di pesce pregiato.
Al ritorno in porto si faceva l'operazione della spartizione
del pescato, ed era una vera e propria cerimonia a cui assistevano tutti i
ragazzini del paese, e non solo loro. Nel cortile della casa del capopesca o sul
molo del porto si facevano in cerchio tanti mucchi di pesce quante erano le
parti in cui si doveva dividere il pescato. Spettava una parte ad ogni uomo, una
a ogni barca ed una o più al proprietario delle attrezzature. Poi tutti gli
uomini si mettevano in cerchio e col rituale del bim, bum, bam buttavano dei
numeri con le dita e facevano la conta, il primo estratto prendeva il mucchio di
pesce più ricco, precedentemente definito e gli altri seguivano in ordine di
estrazione della conta. Nel periodo invernale molti pesci rientravano nei bassi
fondali delle baie del canal per la riproduzione, quindi gli appassionati di
pesca più esperti seguivano queste migrazioni per poi al momento giusto calare
le reti e fare serajo (serraglio), cioè chiudere il pesce, di solito orate e
volpine o muiéle (muggini). Molte volte i seraj fruttavano diecine di quintali
di pesce, il problema però era come smaltire il pescato, in paese non si poteva
vendere un granché, perché molti provvedevano da soli al proprio fabbisogno.
Fuori paese, senza mezzi di trasporto regolari e senza infrastrutture adeguate
era altrettanto difficile trovare un mercato, quindi spesso si lasciavano per
molte settimane i pesci chiusi nei bassi fondali come se fosse un allevamento.
Il pescatore lasciava che i compaesani andassero con le loro barche dentro al
serajo a prendere con le fiocine quello che a mano a mano serviva per le
famiglie, dietro il pagamento forfetario di un pedaggio, finché tutto il pesce
veniva smaltito. Un altro tipo di pesca abbastanza importante e molto praticato,
era la trata, cioè la pesca delle sardelle e delle alici (inciò), e degli
sgombri, che si faceva generalmente in primavera, di notte, possibilmente in
assenza di luna, con la lampara e vaste reti di superficie.
[65]
La pesca delle sardelle con le "tratte" nel mare circostante le
isole, è molto antica ed è stata regolamentata fin dal XVII secolo da precise
disposizioni, che definivano le "poste" in cui calare le reti, i criteri di
assegnazione ai vari pescatori delle "poste" stesse ed il tributo che ciascun
titolare di "posta" doveva versare come diritto di sfruttamento.1
Le "poste" erano assegnate annualmente per sorteggio, che anticamente era
effettuato il giorno della ricorrenza di S. Marco (25 Aprile). Prima che fosse
introdotto il petromas, ossia la lampara a petrolio, l'illuminazione del mare
per attirare i pesci, era realizzata con grandi fuochi, ottenuti bruciando
rami di ginepro su un apposito telaio di ferro, posto sporgente sulla prua
delle barche.
I pescatori di Neresine praticavano questo tipo di pesca,
abbastanza occasionale, fora Ossero, ossia a largo della baia di Ossero,2
reclutando il personale con gli stessi criteri di quelli già descritti per
la pesca con la ságoniza.
Le sardelle e le alici erano abbastanza richieste perché era
usanza in tutte le famiglie conservare sotto sale questo pesce, generalmente si
usavano dei contenitori di legno, come dei mastelli o baie, entro cui si
stivavano in bel ordine i pesci: uno strato di pesce ed uno di sale e così via
fino al riempimento del contenitore. Poi si pressava il tutto con una grossa
pietra e si lasciava stagionare per qualche mese, infine le squisite sardelle o
alici salate erano pronte da mangiare, generalmente condite con olio e aceto e
accompagnate con passaméte e un buon bicchiere di vino.
Tra i tipi di pesca più comuni va anche ricordata quella con
le reti: i tremagli (tramaćiuàne), piccole reti da fondo con cui si pescavano
triglie (tarjize), scarpéne (capponi), scorfani (scarpocì), bisibabe, sanpieri,
granzi e ogni altro tipo di pesce da fondo; queste reti venivano generalmente
utilizzate per la raccolta del pesce per uso famigliare. c'erano anche le
postizze, reti alte, più adatte per prendere pesci pelagici come sgombri, suvri,
bobe e muòdraszi; queste reti richiedevano una gestione più impegnativa e
professionale, quindi utilizzate dai pochi pescatori semi professionisti. Infine
la pesca praticata da quasi tutti i ragazzi del paese, ossia quella con la togna
(lenza) e il palangar (palamiti), che comunque dava buoni frutti con poca
fatica.
L'allevamento del
bestiame.
Quando si parla di allevamento di bestiame riferito a
Neresine, si deve parlar prima di tutto di pecore (òfze). Fin dalle origini
del paese, l'allevamento delle pecore è stato la principale è più importante
attività della popolazione. Da questa fonte si ricavavano i fondamentali mezzi
di sostentamento come la carne, il formaggio e la lana. Ogni famiglia
possedeva almeno il numero di pecore necessarie per il proprio fabbisogno.
Naturalmente l'allevamento richiedeva anche il possesso della quantità di
terreno da pascolo occorrente per lo scopo, perché esse venivano allevate allo
stato libero, rinchiuse in aree di campagna a macchia mediterranea,
preventivamente pulite e adattate per il pascolo, denominate logo o miesto. I
loghi o miesti erano tutti identificati con un loro specifico nome e erano
accuratamente recintati da masiere o gromáce, muri a secco alti, in certi casi
fino e oltre i due metri, in cui le pecore vivevano autonomamente tutto
l'anno. Per facilitarne la cattura e per evitare che saltassero oltre le
masiere, alle pecore venivano legate due gambe tra di loro, di solito una
anteriore ed una posteriore dallo stesso lato, con una particolare corda
intrecciata "a treccia" di lunghezza di circa 20 - 25 centimetri chiamata
sbalza o spona; quando qualche pecora era particolarmente riottosa (di solito
una "capopecora"), si ricorreva alla legatura incrociata, ossia una gamba
anteriore da un lato e quella posteriore dall'altro, se poi la cosa non
bastava, si faceva la legatura con due spone incrociate fintanto che la pecora
non "metteva giudizio". Tendenzialmente si cercava di selezionare per la
riproduzione e la mungiura le pecore più docili (crotke), in modo da avere
meno problemi per la gestione dei greggi e la mungitura quotidiana. Le pecore
erano divise in due categorie: quelle che facevano gli agnelli e che poi erano
destinate alla mungitura del latte, chiamate bree quando erano incinte e
malsìzze quando davano il latte, e quelle sterili o non adatte alla mungitura
chiamate jállove. Le pecore jállove ed i montoni (pruàs, plurale pruàsi) di
solito erano tenuti in loghi separati dalle altre.
[66]
Poiché la stagione ideale per la nascita degli agnelli e la
successiva mungitura era, per maggiore ricchezza di erba e per migliori
condizioni climatiche, la primavera, il periodo della riproduzione veniva
programmato in maniera da far coincidere in modo ottimale i vari eventi,
quindi i montoni venivano introdotti nei loghi dove stavano le pecore fertili
nel periodo opportunamente calcolato; sorgeva tuttavia un problema, i montoni
con le spone ai "piedi" avevano difficoltà a fare "il loro dovere", quindi era
stato escogitato un altro espediente: il clatò. Il clatò era un attrezzo di
legno di frassino (jéssen) lungo circa 30-40 centimetri, opportunamente
sagomato e piegato a "u", in modo da poter essere infilato e legato alla gamba
del montone, in questo modo gli veniva impedito di correre velocemente e
saltare le masiere, ma veniva lasciato libero di effettuare i movimenti
fondamentali per la riproduzione. Anche in questo caso, a seconda della
docilità e robustezza del montone, venivano utilizzati uno o più clatò,
conseguentemente non era insolito udire in certi periodi dell'anno, il tipico
rumore dello sbattimento dei legni contro le rocce, proveniente dalla
campagna. La stagione della mungitura e quindi della produzione del formaggio
andava da aprile a giugno ed anche oltre. La mungitura veniva fatta di solito
dalle donne, chiamate sàlarize, due volte al giorno, alla mattina presto ed
alla sera; esse andavano nel logo dove stavano le pecore e da una estremità,
di solito quella più alta, cominciavano a radunare (vag'nát) le pecore con
gridi e richiami (na, na, male naaa…), spingendole verso il basso, dove si
trovava il margarìch, una specie di ovile lungo e stretto, spesso coperto con
tetto di tegole per ripararsi da eventuale pioggia. Quando le pecore erano
tutte entrate nel margarìch, le donne iniziavano a mungerle ad una ad una,
sedute in un caratteristico e rudimentale sgabello a tre gambe (stuòlcich).
Per fare un formaggio al giorno di circa due chili occorrevano
da dodici a quattordici pecore. Il formaggio veniva fatto la mattina, al ritorno
dalla mungitura: si metteva il latte della sera prima e quello appena munto in
un grossa pentola, si versava il caglio, la pentola veniva posta sul fuoco del
fogoler (ug'gnìsće) sistemata sulle trepìe
(tripode) e si aspettava l'indurimento della massa di latte, poi la cagliata
veniva frantumata con un mestolo speciale (clatacìć), fatto con un ramo di
ginepro, alla cui estremità venivano lasciati quattro o cinque moncherini dei
rami più piccoli, una specie di mestolo frullatore. Quando la massa era tutta
sbriciolata, la donna cominciava con le mani a raccogliere lentamente i
frammenti e ad impastarli spremendoli con le mani per eliminare la parte
liquida. La temperatura del miscuglio era mantenuta attorno ai 35 - 40 gradi
governando il fuoco. L'operazione di spremitura durava circa un'ora, poi il
formaggio veniva messo nella setìzza (da pronunciare con la esse dolce), una
forma di legno che veniva poi riposta, con sopra una pesante pietra, per
continuare la spremitura. Il siero liquido residuo, la presćnìzza, era filtrato
con un panno bianco in cui si formava la squisita ricotta (puìna o scutta),
mentre l'ultimo liquido di scarto, la usámniza, veniva utilizzata per
l'alimentazione del maiale di casa. Dopo qualche giorno il formaggio era tolto
dalla forma e messo a stagionare nelle apposite staluásize (grigliati di legno),
in un posto ben arieggiato, spesso nella cappa del camino del fogoler, dove
riceveva anche una leggera e gradevole affumicatura.
Nelle case più antiche ed anche in alcune di quelle in mezzo
ai boschi delle stanze di Bora, le cucine erano costruite in funzione della
produzione e stagionatura del formaggio e dei prosciutti, ossia avevano un
grande fogoler al cento e l'alto soffitto del locale era fatto a forma di cupola
o tronco conico da cui centralmente si dipartiva il camino; in sostanza l'intero
soffitto della cucina fungeva da grande cappa, ed era attraversata da delle
travi di legno o di ferro orizzontali, su cui erano fissati i grigliati per la
stagionatura ed affumicatura del formaggio e dei prosciutti. (Lo scenario della
grande cucina della stanza di mio nonno in Garmosaj, con le staluáse del
soffitto piene di profumati formaggi, e con prosciutti, salsicce e ciriève
appese alle travi a formare allegri ed appetitosi festoni, è rimasto indelebile
nella mia memoria).
Tornando al formaggio, quando veniva tolto dalla setìzza,
presentava degli sfridi lungo la circonferenza delle due basi rotonde della
forma cilindrica, gli sfridi tagliati erano chiamati uresi (ritagli) (la esse va
pronunciata aspra) ed erano la prelibatezza più ambita per i bimbi di casa.
Inutile dire che il formaggio era di una bontà indescrivibile, inimitabile,
sapori purtroppo anche questi perduti per sempre.
[67]
Come il formaggio, evidentemente anche la
ricotta veniva prodotta in grande quantità, ma ben poca se ne poteva consumare
tal quale, essa veniva quindi sottoposta ad una ulteriore lavorazione, ossia
un energico sbattimento (tàppat) in appositi attrezzi, una specie di lungo
tubo costruito in doghe di legno (tàppalo), come la setìzza, in cui,
attraverso il coperchio forato ed un particolare stantuffo, veniva
energicamente sbattuta, separando ulteriormente il liquido sieroso (usàmniza),
ricavando come prodotto finale il meraviglioso burro, che veniva in gran parte
venduto fuori paese, specialmente a Lussino. Oltre al burro, con la ricotta si
faceva anche il butìro, ossia si cuocevano le ricotte in una grossa pentola,
in modo da far evaporare l'acqua in esse contenuta, quindi si raccoglieva il
grasso residuo liquefatto, per poi conservarlo, in grossi bozoni (vasi di
vetro) con tappo smerigliato a tenuta ermetica, per consumarlo durante
l'inverno in sostituzione del burro vero e proprio. Anche la lana (vàlna) era
un importante prodotto ricavato dalle pecore. Dopo la tosatura la lana veniva
lavata, cardata (cardatura grezza = grabunàt; cardatura fine = grabusàt) e
filata (prìest) coi veloci mulineri (mulinier) a manovella manuale, il
prodotto finito era un bel filo di lana, (utác), un po' grezzo ma ottimo per
fare coperte, calze, maglioni, berretti, ecc. Con la lana venivano anche fatti
ottimi materassi e cuscini che trovavano ampio mercato fuori paese. Alcune
famiglie, fin dal lontano XVII secolo, si erano dotate di telaio per la
tessitura della lana, chiamato nel dialetto italiano del paese telér ed in
quello slavo càlize, o più scherzosamente crosgne, con cui venivano prodotte
pregiate coperte (racnò) e un bel tessuto di lana, che veniva venduto anche
negli altri paesi delle isole. Oltre alle pecore, quasi ogni famiglia allevava
anche un maiale (prassàz) per le carni e gli ottimi prosciutti ed almeno una
capra (cosà) per il latte, perché quello delle pecore era destinato
interamente per la produzione del formaggio.
Diversamente dalla pecora, la capra era allevata
esclusivamente per la produzione del latte necessario all'alimentazione della
famiglia, ed era tenuta come animale domestico, alloggiata nel cotàz (piccolo
recinto con annessa casetta) vicino casa; essa veniva alimentata prevalentemente
con le giovani foglie degli alberi, come ciarnìca (elice), planìca (corbezzolo),
drien, foglie di verza, ecc. e nella bella stagione veniva portata nei prati e
orti a brucare l'erba, legata con una leggera catena in modo che non potesse
allontanarsi e fare "danni" negli orti dei vicini. Per legare la capra era
utilizzato l’òbruch, un collare di frassino oppotrunamente piegato a "u", dotato
di un ingegnoso chiavistello di legno. Le donne avevano anche l'onere di andare
due o tre volte la settimana in campagna "po briènze", ossia a raccogliere un
grande fascio di frasche di rami di alberi ricchi di giovani foglie, per
alimentare la capra di casa. Era consuetudine incontrare la sera le donne che
ritornavano dalla campagna con un enorme fascio di frasche, portato in
equilibrio sulla testa, con interposto il coluàch (una particolare ciambella di
stoffa imbottita da appoggiare sulla testa); le frasche, una volta ripulite
delle foglie dalla capra, erano poi utilizzate per alimentare il fuoco del forno
di casa per la cottura del pane.
Poiché le capre erano tenute nel cotàz vicino casa, e
pressoché ogni famiglia ne possedeva una, per avere una buona produzione di
latte, era necessario garantire la riproduzione annuale di questi utili e
simpatici animali, ma le famiglie non potevano per questo scopo tenere anche il
caprone (parch), quindi alcuni cittadini si erano organizzati allevando un
robusto esemplare di caprone, in grado di coprire il fabbisogno riproduttivo
delle capre di tutto il paese. Di solito in paese erano disponibili uno o due
caproni, quindi per usufruire delle loro "prestazioni", bisognava portare la
capra di casa nell'apposito recinto in cui era tenuto il maschio, nel periodo
dell'anno opportunamente programmato. Le capre venivano portate la sera presso
il caprone, di solito cinque o sei alla volta, dove trascorrevano la notte. Le
prestazioni riproduttive venivano poi pagate al padrone del parch in base ad una
tariffa preventivamente concordata. Purtroppo i caproni in questo periodo
emanavano anche un caratteristico ed insopportabile fetore, che sarà anche stato
gradito alle capre e quindi utile per stimolare il loro istinto riproduttivo, ma
ammorbava l'aria per parecchie diecine di metri tutt'intorno, rendendo
sgradevole la permanenza degli umani nelle vicinanze del recinto. È facile
immaginare come la curiosità morbosa dei ragazzini del paese trovava il suo
apice nel periodo riproduttivo delle capre, quindi non era insolito incontrarne
alcuni la sera, malgrado l'intenso fetore, mentre si aggiravano circospetti nei
pressi dell'harem caprino.3
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A proposito delle capre, va anche detto che per alcuni anni,
tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, il governo austriaco, con
l'intento di preservare la vegetazione dell'isola, proibì l'allevamento della
capre; la legge, del tutto demenziale, che ignorava le vitali esigenze della
popolazione, provocò problemi sanitari per malnutrizione a molti bambini del
paese, come detto più estesamente in altra parte.
A seguito della citata legge di "messa al bando" delle capre,
in paese alcune famiglie si dedicarono all'allevamento delle mucche (crave),
proprio per fornire il latte necessario a tutti gli abitanti del paese; anche in
questo caso quelli che si attrezzarono per l'allevamento di questi animali,
furono le solite famiglie dei grandi proprietari terrieri, ossia i Gaetagnevi
(Bracco), i Casteluagnevi (Soccolich-Castellani), i Menisićevi
(Zorovich-Menesini) ed i Cravići (Bracco), che avevano i mezzi economici per
allestire le stalle richieste per questo tipo di attività. Le stesse famiglie,
oltre alle mucche, allevavano i manzi (buoi) necessari per il trascinamento dei
carri, ma soprattutto per i lavori di aratura dei grandi gorghi (tiesi) e dei
vari campi esistenti in tutta la campagna del circondario.
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