Photo from Marin Topić,
Istra,
Omnium d.o.o. (Poreč, 1997).
Da secoli considerata il centro
della penisola, alla città sono legati tanti e importanti avvenimenti
Pisino, il cuore antico
dell’Istria
Il panorama di
Pisino si apre a
un tratto alla vista, in basso, quasi a volo d’uccello, con le proposte
imperanti di due edifici monumentali: il Castello, o meglio la Rocca del
Cinquecento, e lo slanciato campanile veneto a cuspide, esagonale, insegna
settecentesca che affianca il Duomo di origine romanica. La parte vecchia di
Pisino riflette l’umile borgo medievale sorto, appunto, accanto al Castello,
sull’orlo della rupe che delimita il pauroso precipizio della Foiba. La bizzarra
posizione dei massi sporgenti delle ripide pareti rocciose, le sinuosità piene
di cespugli, il contrasto con la dolce movenza dei colli che la circondano con
Lindaro da una parte e Pisinvecchio dall’altra, ancora l’orizzonte che si
spalanca verso le gobbe del
Monte
Maggiore, danno il quadro di un veramente fantastico paesaggio. Da tempi
remoti il borgo viene praticamente considerato il cuore dell’Istria, il luogo
dove si svolsero tanti e importanti avvenimenti ed è certo per questo che i
tedeschi lo chiamarono Mittelburg.
Una lunga storia
Il suo nome figura già nel 929 in un atto con cui
Ugo di Provenza, allora re d’Italia, donava il Castrum Pisinum al vescovo di
Parenzo. Una seconda volta viene ricordato, sempre con la stessa
denominazione, nel 983 in un documento dell’imperatore Ottone II. Il nome
comunque “spesso compare nelle cronache delle donazioni che nel Medioevo
venivano fatte alle istituzioni ecclesiastiche, cospicuamente favorite da un
regime che speculava su un loro appoggio e da un nobilume che cercava, con le
frequenti e copiose elargizioni, d’acquetare la propria sporca coscienza”, come
riferisce il triestino
Giuseppe Caprin
nella sua nota opera “Alpi Giulie” stampata nell’anno 1893. Nel 1175, i vescovi
di
Parenzo concessero l’investitura ai Conti di Gorizia i quali, a poco a poco,
estesero il loro dominio sui territori limitrofi finché nel 1234 nacque, con
Mainhard von Schwartzenberg, la Contea di Pisino e d’Istria. Nel 1374 questa
venne ceduta agli Absburgo che a loro volta la regalarono dapprima ai Duinati
poi ai Walsee. Quindi passò in feudo a diverse famiglie di nobili tedeschi e
italiani come gli Eppenstein, i Weimar-Orlamunde, gli Andechs, i Wittelbach
finché nel 1766 venne acquistata da Antonio Laderchi, marchese Montecuccoli da
Modena. Gli stemmi di diverse di queste casate sono ancora incastonati sulla
murata principale del castello.
L’erta rampa del Castello
Il Castello venne edificato probabilmente nell’XI
secolo, mentre il suo aspetto odierno risale sicuramente ai secoli XIII e XIV,
quando venne riedificato, nonché ai rifacimenti seguenti (XVI sec.) come ci
informa il
De
Franceschi nella sua Storia documentata della Contea. Si tratta di un ampio
fabbricato quadrilatero al cui centro si trova un ampio cortile con la
cisterna. Si entrava da un ponte levatoio su di un largo e profondo fossato,
si proseguiva lungo un cupo androne sbarrato alle sue estremità da una porta.
Intorno all’edificio s’era sviluppato l’abitato con in primo piano le case
signorili dei nobili e dei funzionari ministeriali che cercavano, accanto alla
rocca, una più sicura anche se incomoda sistemazione, nonché la chiesa della
Madonna della Misericordia e la parrocchiale di San Nicola. Emergevano dietro la
cinta, a breve distanza, in elevata scoscesa posizione, le fosche muraglie
cieche del castello guarnite da un finimento di piombatoi sistemato fra l’alto
mastio quadrilatero a sinistra e il tozzo torrione circolare a destra. Un’erta
rampa a ripiani saliva al cunicolo in volta sotto il torrione, passaggio
obbligato questo, chiuso da due porte ad arco, che giungeva poi, girando il lato
settentrionale del castello e attraverso una terza porta, nel cortile murato
esterno corrispondente all’attuale piazzetta della Foiba. L’accennata rampa a
gradini, doveva rendere assai malagevole il transito dei cavalli dei padroni e
degli altri animali, soprattutto il trasporto nelle cantine e nei granai dei
prodotti agricoli, della legna, del fieno, con piccoli carri trainati spesso dai
buoi come era in uso allora, rampa che forse per questo venne livellata nei
primi anni dell’Ottocento.
La foiba, uno spettacolo della natura
La caratteristica più importante di Pisino è
comunque la Foiba che come afferma il già citato
Caprin “vi
si spalanca di sotto un centoventotto metri di profondità ed è considerato uno
dei più interessanti spettacoli naturali”. E più avanti aggiunge: “Il professor
Taramelli dice che come fenomeno d’erosione, per opera di un torrentello
normalmente umile (il Foiba, in croato Pazinščica - n.d.a.) è sublime! Guardando
poi quella poca acqua che giornalmente scorre, non si crederebbe che abbia
potuto compiere un tale vertiginoso scavamento. Essa sparisce come quella del
Timavo superiore per una grande arcata, che s’aperse mordendo gli ostacoli. Il
conte Ensdoff tentò più volte di penetrare nella grotta con una barchetta, ma al
punto ove si restringe, dovette fermarsi e sospendere l’esplorazione. Il noto
viaggiatore
Carlo Yriarte racconta invece di alcune perle d’ambra, gettate nella Foiba,
che furono ripescate nel Canale di Leme.
Giulio Verne ancora, valendosi di questa panzana – è sempre il Caprin ad
affermarlo –, fa evadere l’eroe di un suo romanzo,
Mattia Sandorf e il compagno Stefano Battory, dalle prigioni del castello di
Pisino: difatti giungono sani e salvi davanti l’ingresso della cupa caverna e,
travolti dai vortici, seguendo la corrente del torrente, riemergono dove l’acqua
sbuca a cielo aperto”, per poi continuare la fuga fino a Dubrovnik.
La «verifica» della storia di Verne
E aggiunge ancora l’autore triestino: “Un certo
Adriano Martel ha voluto recentemente accertarsi quanto ci fosse di vero in
tutta la descrizione del grande autore dei viaggi nella Luna e nel centro della
Terra. S’internò in quel labirinto con un suo piccolo boat ma dopo breve
percorso non poté proseguire. L’acqua formava un lago chiuso da tutte le parti
che deve perdersi per fratture invisibili”. Come si vede già alla metà
dell’Ottocento si cercava di risolvere l’arcano. In effetti, Pisino si trova
sopra un grande lago sotterraneo. Lo confermano gli speleologi che di recente
attraverso la gola sono arrivati sin qui da dove è davvero impossibile
proseguire ma, da prove fatte, seguendo il flusso sotterraneo, l’acqua scorre
fino a sfociare non sul Canale di Leme, ma sulla costa orientale istriana anche
se non si sa bene dove. C’è ancora da dire che spesso, quando per le piogge
torrenziali il torrente si gonfia improvvisamente, le acque chiudono la gola
della voragine, creando in essa un lago temporaneo.
La figlia del conte e il pastorello
Ed ora una celebre leggenda legata naturalmente
al Castello. Si narra, anzi è storicamente accertato, che nel lontano 1234 qui
vivesse il conte Meinhard Schwarzenberg. Costui aveva una bellissima figlia e
ogni giorno arrivavano fin da terre lontane dei nobili per chiederla in sposa.
Ma lei ostinatamente rifiutava tutti perché s’era innamorata di un pastorello il
quale mentre badava alle sue bestie suonava il flauto e cantava con una voce
melodiosa. Un giorno lei si recò nel bosco per incontrarlo e per dirgli:
- Mio padre vuole maritarmi con un nobile, ma io
rifiuto tutti perché sono innamorata di te.
Al sentire queste parole il pastorello si
commosse, ma anche si spaventò a tal punto che, dapprima gettò il flauto
nell’immondizia e poi, radunate le sue pecore, corse a casa a nascondersi.
Dopo qualche tempo arrivò un grande e possente
esercito che assalì il castello, lo conquistò, uccise il conte Meinhard, fece
prigioniera la contessina e la rinchiuse nella torre più buia. Il torvo
comandante della soldataglia decise che l’avrebbe data in sposa a colui che
fosse stato così intelligente e così valoroso da liberarla. Molti nobili
guerrieri accorsero e tentarono la difficile impresa. Tutti senza risultato
perché la torre era costantemente sorvegliata da un terribile orco che era al
seguito del comandante e che, nientemeno, aveva sette teste e assaliva e
uccideva quanti cercavano di avvicinarsi.
Un giorno il pastorello che non aveva mai
dimenticato la sua bella, decise di salvarla. Con un virgulto di nocciolo si
costruì un nuovo flauto perché sua madre gli aveva assicurato che solo con uno
strumento simile avrebbe potuto incantare l’orco e quindi si recò al castello.
Messosi davanti l’entrata suonò e suonò per tre giorni e per tre notti. Si stava
ormai avvicinando la terza mezzanotte quando s’intese lo strepito di un potente
cigolio. Il portone del castello si spalancò e l’orco apparve ruggendo. La terra
tremò, ci furono tuoni e fulmini, si scatenò una tremenda tempesta. Ma il
pastorello non s’impressionò, non si mosse dal suo posto anzi attaccò un
delizioso motivetto, allegro al punto che l’omaccio cominciò a ridere e a
ballare! Cosa fece allora il suonatore? Passin passetto s’avvicinò al portone,
con un balzo entrò nel cortile, si precipitò a chiudere i massicci battenti.
Quando l’orco s’accorse di essere stato raggirato, s’arrabbiò, cominciò a
ringhiare, a battere, a spingere le porte ferrate tuttavia senza riuscire ad
aprirle. Il tutto durò finché quel mattino i galli cantarono per la terza volta,
finché subito dopo sorse l’aurora, il sole indorò il cielo, l’orco perse tutti i
suoi poteri magici e il possente esercito tutte le sue armi. Il pastorello poté
allora slanciarsi su per le scale della torre, aprire la prigione, liberare la
sua amata contessina. Tra il giubilo del popolo si sposarono pochi giorni dopo e
fu in tal modo che da quel giorno egli diventò a sua volta conte e poté
governare saggiamente e per lunghi anni il vasto territorio di Pisino. Forse
questa è solo una leggenda, ma il castello ha ancor oggi – soprattutto per i
voli della miriade dei suoi colombacci – un aspetto che davvero incute riguardo,
così affacciato sull’orrido della Foiba.
Le campane del Museo etnografico
Il castello ospita oggi un ricchissimo Museo
Etnografico e Storico il quale, tra l’altro, ha una collezione preziosa di
campane recuperate durante la guerra nelle chiesette abbandonate
dell’Istria, custodite in Friuli fino al 1961 e poi portate qui. Si può così
prendere visione degli stili di fonderia nei secoli, con forme diverse, dalle
più vecchie piccole e rudimentali, poi alle più alte ed eleganti, infine le
ultime, larghe e basse, ricche di dettagli decorativi con i quali i maestri
fonditori esibivano ai posteri la loro arte. Queste
campane, assieme a tante altre che non ci sono più, hanno dato anima e vita
agli alti
campanili, ai campaniletti a vela delle cappelle di campagna e alle piccole
torri dei palazzetti municipali dei borghi istriani. Hanno avuto origine per la
maggior parte dalle fonderie dei maestri veneziani, ma ce ne sono alcune che
testimoniano l’opera di fonditori friulani, sloveni, tedeschi e qualcuna anche
di fonditori ambulanti o di modesti ma intraprendenti artigiani di paese.
Tratto da:
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© La Voce del Popolo -
http://edit.hr/lavoce/2011/110624/speciale.htm
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